L’ente collettivo nell’arcipelago delle misure di contrasto alle infiltrazioni della criminalità organizzata nel sistema economico

Sommario: 1. Ambientamento dell’indagine. – 2. L’evoluzione della prevenzione antimafia tra la l. 575/1965 e la l. 646/1982. – 3. La prevenzione mediante organizzazione nel decreto legislativo 231/01 secondo lo “Stick and carrot approach”. – 3.1. La responsabilità degli enti collettivi per fatti di criminalità organizzata. – 4. Gli enti collettivi nel Codice Antimafia. – 5. Le misure di contrasto alle infiltrazioni mafiose nella disciplina anticorruzione: il comma 10 dell’art. 32, d.l. 90/2014. – 6. Notazioni conclusive.

1. Ambientamento dell’indagine

L’irruzione degli enti collettivi nel Sancta Sanctorum penalistico ha avuto l’effetto di una vera e propria rivoluzione nella scienza penale, dando vita a una pluralità di conseguenze di breve, medio e lungo periodo.

Appartengono alla prima categoria le dispute dogmatiche – non ancora sopite – sulla natura della responsabilità descritta dal d.lgs. 231/01[1], nonché sulla compatibilità degli istituti in esso disciplinati con talune categorie classiche del diritto penale[2].

Possiamo invece annoverare tra gli effetti di lungo periodo il contributo che la progressiva acquisizione di centralità della dimensione ultraindividuale della responsabilità penale[3] – la cui riscoperta[4] ha messo in crisi le scelte allocative[5] su cui per oltre due secoli si è fondato il Pantheon penalistico costruito sulle fondamenta del pensiero illuministico[6] – ha fornito e sta fornendo al senso di spaesamento e alla perdita di identità del giurista contemporaneo, sempre meno capace di incidere sul presente e di modellare il futuro mediante il ricorso a strumenti che appaiono sempre di più come manufatti di una antica civiltà ormai scomparsa[7].

Devono essere infine interpretati come effetti di medio periodo – id est, non immediatamente apprezzabili e forse non prevedibili al momento dell’entrata in vigore del decreto 231, ma ormai chiaramente delineatesi nel momento in cui scriviamo – le aporie sistematiche che si sono delinate a seguito della stratificazione di misure tra loro assai simili – se non, in taluni casi, sostanzialmente sovrapponibili – quanto ad estensione soggettiva, presupposti applicativi ed effetti sanzionatori, introdotte in epoche diverse e progressivamente implementate da legislatori talvolta immemori dell’opera dei loro predecessori, che ci consegnano oggi un panorama estremamente frastagliato e dalla orografia irregolare.

La sollecitudine del legislatore del 2001 nell’accantonare il principio Societas delinquere non potest – un sacrificio ritenuto necessario per allineare l’ordinamento punitivo[8] italiano agli altri sistemi di diritto continentale che già nei decenni precedenti avevano ritenuto di abbandonare l’idea che solo la persona fisica potesse essere responsabile e quindi patire le conseguenze di un crimine – ha fatto sì che si trascurasse di tenere nella giusta considerazione il bisogno di coordinamento con le altre misure, anch’esse formalmente amministrative, cautelari e sanzionatorie, che nel corso degli anni hanno implementato il sistema preventivo rivolto agli enti collettivi.

Nelle pagine che seguono compiremo un breve excursus in questo sottosistema, ripercorrendo le tappe essenziali della sua evoluzione, disegnandone i confini attuali e cercando di prevedere quelle che potranno essere le linee di sviluppo future.

 

2. L’evoluzione della prevenzione antimafia tra la l. 575/1965 e la l. 646/1982.

Se si adotta un criterio cronologico, il primo nucleo di quella che oggi definiamo come normativa in materia di contrasto ai tentativi di infiltrazione della criminalità mafiosa nel sistema economico risale al 1965, quando il legislatore dell’epoca, facendo proprie le conclusioni alle quali era giunta la prima Commissione parlamentare antimafia[9] – che aveva osservato che per applicare le misure di prevenzione non occorressero prove sicure di colpevolezza in ordine ad un fatto determinato, ma sarebbe stata sufficiente una generica pericolosità sociale – ritenne di affrontare il fenomeno dell’associazionismo mafioso preferendo allo strumento penale[10] il limitrofo settore delle misure di prevenzione[11].

Del resto, i risultati ottenuti nel primo dopoguerra dal Prefetto Mori in Sicilia[12] avevano dimostrato come il diritto di polizia – in quel caso imperniato sulla applicazione di misure di tipo personale – fosse più efficace di un diritto penale ancora influenzato dal pensiero liberale e che vedeva sé stesso come modello di giustizia per soli galantuomini[13].

Si riproponeva ancora una volta, anche in epoca repubblicana, quel duplice livello di legalità che non ha mai smesso di accompagnare le vicende del diritto penale italiano dall’epoca preunitaria fino ai giorni nostri[14], legittimato peraltro dall’ambiguo[15] silenzio dei Costituenti sulle misure ante e praeter delictum.

Riteneva inoltre la Commissione che i mafiosi non temessero in modo particolare la sanzione penale, sia per una distorta concezione del coraggio, del prestigio e dell’onore personale, secondo la quale il carcere, accettato con fatalistica rassegnazione senza tradire i complici, contribuisce ad accrescere verso l’uomo d’onore detenuto sentimenti di rispettosa ammirazione; sia perché anche dall’interno del carcere, sito quasi sempre nella stessa zona nella quale il detenuto risiede, è possibile mantenere contatti con la propria famiglia e con la propria cosca; sia, ancora di più, perché essi ritengono di poter sfuggire alla pena, fidando sulla omertà dei testimoni, i quali non osando deporre contro di loro, fanno venire meno le prove di colpevolezza[16].

Invece, essi temono molto di più le misure di prevenzione; e ciò in quanto ne percepiscono la maggiore efficacia, nonché per la loro più rapida e immediata applicazione, infine per gli effetti ultimi, tra i quali l’allontanamento fisico degli indiziati dall’ambiente dal quale traggono il proprio potere e nel quale si sviluppa la peculiare forma di capacità criminale che li caratterizza[17].

Ritroviamo in queste considerazioni, formulate in un’epoca antica, quando la mafia era ancora – o si credeva che fosse – un problema territorialmente circoscritto a talune zone agricole del meridione[18], l’archetipo del pensiero antimafioso contemporaneo, che ancora legittima culturalmente l’esistenza di quel doppio binario nella legislazione di contrasto al fenomeno mafioso che costituisce uno degli elementi essenziali della disciplina che stiamo esaminando.

Da questo punto di vista, pur nella sua estrema laconicità[19], la disciplina del 1965 ha segnato una vera e propria svolta nel sistema del diritto penale-amministrativo, le cui implicazioni ultime sul piano del rispetto dei principi fondamentali non sfuggirono al biasimo di chi, a partire dai primi anni Settanta del secolo scorso, aveva avviato un percorso di rilettura del diritto penale vigente costituzionalmente orientato[20].

Un percorso che si è snodato in diverse tappe, tra le quali riveste particolare interesse, nella prospettiva di questo studio, la legge 13 settembre 1982, n. 646, che rappresenta l’esito di un percorso evolutivo avviato dalle Commissioni antimafia che si erano succedute nel decennio precedente e che avevano già proposto di affiancare alle misure di prevenzione personale già estese dalla c.d. legge Reale (legge 22 maggio 1975, n. 152) anche delle misure misure di carattere patrimoniale: indagine obbligatoria della Guardia di finanza nei confronti dei sospetti mafiosi; eliminazione della pregiudiziale tributaria per i reati fiscali accertati; cauzione di buona condotta per gli indiziati di reati di mafia ovvero per coloro per i quali si proponga l’applicazione di una misura di prevenzione; dilatazione delle ipotesi di sequestro conservativo penale anche a carico dei beni dei familiari o conviventi del prevenuto[21].

Nella nostra prospettiva di ricerca, la legge del 1982 rappresenta una vera e propria pietra miliare, in quanto, per la prima volta, il legislatore assunse come riferimento politico-criminale il fenomeno della cd. impresa mafiosa[22], per colpire la quale furono introdotte misure – su tutte, la confisca di prevenzione[23] – volte a recidere il legame tra attività criminale, accumulazione di ricchezza e successivo reimpiego nell’economia legale.

Del resto, con il 1982 si apre l’era delle confische, destinate a diventare nel volgere di pochi anni vere e proprie vedette del diritto penale contemporaneo[24]; con esse, era destinato a mutare anche il perimetro tradizionale di applicazione delle misure di prevenzione, i cui destinatari non sarebbero presto più stati soltanto i soggetti marginali e i devianti, ma sempre di più i cd. white collar e, aspetto per noi di assoluto interesse, le loro aziende.

 

3. La prevenzione mediante organizzazione nel decreto legislativo 231/01 secondo lo “Stick and carrot approach”.

Prima di approfondire il sistema di prevenzione patrimoniale vigente, riteniamo necessario approfondire un altro – fondamentale – aspetto del diritto punitivo degli enti collettivi, esaminando la disciplina della Responsabilità amministrativa da reato, contenuta nel d.lgs. 231/01.

Come è noto, il decreto 231 è stato introdotto con lo scopo di superare i limiti di una legislazione in materia di criminalità di impresa che, nonostante la presa d’atto dell’esistenza di una tipologia empirico-criminale riferita all’operato degli enti collettivi[25], continuava a rivolgersi esclusivamente alle persone fisiche.

Per superare questa situazione di stallo – e per adeguare, come già ricordato, il nostro sistema sanzionatorio a quelli dei partner europei, preoccupati delle possibili distorsioni al gioco della concorrenza all’interno del Mercato Europeo Comune (MEC) – si è deciso di sanzionare autonomamente un ente lecito, nell’ambito del quale, da parte di soggetti qualificati, vengono posti in essere alcuni, selezionati, reati, che, in quanto espressione della politica d’impresa, possano essere direttamente ricondotti alla persona giuridica[26].

Presupposto essenziale – quantomeno nelle intenzioni originarie del legislatore – per l’applicazione di questa peculiare forma di responsabilità è che la commissione dei cd. delitti scopo non rappresenti il fine unico o ultimo dell’impresa – nei confronti della quale, altrimenti, opererebbe la diversa disciplina penale dettata per l’ente illecito[27] – bensì uno strumento occasionale, adottato per perseguire specifici interessi, ovvero per ottenere determinati vantaggi.

Proprio in ragione della compresenza degli elementi della liceità dell’attività dell’ente, dell’occasionalità delle vicende criminose, nonché dell’interesse pubblico all’adesione dei soggetti privati a modelli organizzativi virtuosi, il legislatore del 2001 si preoccupò di bilanciare il rigore sanzionatorio che caratterizza tanto le misure cautelari[28], quanto le sanzioni previste nel decreto[29], offrendo all’ente numerosi strumenti volti a mitigarne gli effetti.

Perno di questo sistema premiale sono i cd. compliance programs, ossia i Modelli di Organizzazione, Gestione e Controllo (MOGC) disciplinati dagli artt. 6 e 7 del decreto 231.

L’adesione al sistema di controllo mediante organizzazione delineato dalle norme di cui ci stiamo occupando produce due ordini di effetti favorevoli all’ente, che introducendoli prima della commissione del reato può sperare nell’esenzione da responsabilità, mentre adottandoli – o implementandoli – post factum può vederne fortemente ridotti gli effetti.

Così, all’art. 12, si prevedono i casi di riduzione della sanzione pecuniaria oltre alla previsione, mentre all’art. 17, vengono regolate le condotte riparative, che consentono di evitare l’applicazione delle misure interdittive nei confronti dell’ente condannato in via definitiva che abbia partecipato al processo rieducativo mediante il risarcimento del danno e la messa a disposizione del profitto ai fini della confisca e che abbia altresì eliminato le carenze organizzative che hanno determinato il reato, mediante l’adozione e l’attuazione di modelli organizzativi idonei a prevenire la commissione di reati della specie di quello verificatosi.

La previsione di tre distinte condizioni, al verificarsi congiuntamente delle quali, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, l’ente può evitare l’applicazione in via definitiva delle sanzioni interdittive di cui all’art. 16, rappresenta senza dubbio uno degli aspetti più importanti e innovativi del decreto; attraverso le condotte riparative, infatti, il legislatore dimostra di voler comporre il conflitto sociale “mediante un modello comportamentale che integra il momento della reintegrazione dell’offesa con quello specialpreventivo[30].

Si delinea quindi un sistema fortemente condizionato da logiche special-preventive[31], fondate sul cd. stick and carrot approach, ovvero sul bilanciamento delle diverse esigenze di stigmatizzare, attraverso la sanzione pecuniaria, la condotta criminosa che l’ente non ha impedito o ha agevolato, di evitare, mediante la confisca, che dal reato possa essere tratto un qualsiasi beneficio patrimoniale, e di far sì che il momento dell’accertamento dell’illecito amministrativo e della applicazione in concreto delle sanzioni si traduca in una palingenesi per la struttura organizzativa.

In tal modo, la logica conservativa dell’impresa prevale su quella strettamente sanzionatoria e il percorso di partecipazione dell’ente al processo rieducativo – ad eccezione dei casi più gravi, che, ai sensi dell’art. 15, possono condurre alla nomina di un commissario giudiziale anche nella fase delle indagini preliminari – è ispirato ad una logica di tipo privatistico, che coerentemente con il dettato dell’art. 41 Cost., riconosce la libertà d’impresa nella sua massima estensione[32].

Infatti, la scelta di tentare già attraverso il procedimento di irrogazione della sanzione – prima ancora che con il momento punitivo in senso proprio – la rigenerazione o la palingenesi di un ente resosi protagonista di una vicenda criminosa, dimostra come, in fondo, l’esigenza di punire sia subvalente rispetto alla prospettiva di una prevenzione generale da realizzare mediante la diffusione di una “cultura della legalità aziendale” nel sistema economico italiano.

In questa accezione, il d.lgs. 231/01 svolge una funzione più ampia, e si afferma come uno strumento di ingegneria sociale ispirato ad una logica di compromesso virtuoso, nella quale lo Stato si rende disponibile ad attenuare il rigore sanzionatorio previsto dalla normativa a fronte della libera scelta delle imprese – e di chi le possiede e le guida – di modificare il proprio assetto organizzativo, indirizzandolo alla prevenzione dei crimini[33].

Così facendo, in un settore caratterizzato dal calcolo del rapporto tra costi e benefici, si mira a rendere antieconomico il ricorso al delitto come strumento di politica aziendale, garantendo altresì, attraverso la previsione dell’obbligatorietà della confisca del profitto, che nessun delitto possa falsare il gioco della concorrenza.

Infine, l’impostazione diremmo oggi liberale[34] del legislatore del 2001 si evince anche dall’assoluta eccezionalità dell’intervento diretto dello Stato nella gestione delle imprese coinvolte in un procedimento penale, nonché dalla previsione – vera e propria chiave di volta del sistema – della sanzione dell’interdizione perpetua a carico dei soli enti ontologicamente illeciti, che per loro stessa natura sono irredimibili e devono essere espulsi dal circuito economico legale, come prevede il comma 3 dell’art. 16, che esclude espressamente per questa figura soggettiva l’operatività delle condotte riparative.

Si tratta, come evidente, di un disegno architettonico estremamente raffinato e ancor più complesso, pensato nell’epoca della visione minimalista[35] della responsabilità degli enti collettivi e che mal si concilia con l’ipertrofismo che nel giro di pochi anni ha colpito anche il decreto 231[36].

Non è questa la sede per esaminare i numerosi punti critici e di indicare le crepe – talune delle quali strutturali – che presenta l’edificio concettuale eretto dal legislatore del 2001 a diciotto anni di distanza dalla sua entrata in vigore[37].

Per quanto interessa il nostro discorso, è sufficiente prendere in considerazione, quale elemento di incoerenza intrinseco al sistema 231, prima ancora che come aporia sul piano sistematico, l’estensione della responsabilità degli enti ai delitti di criminalità organizzata, avvenuta con la l. l. 15 luglio 2009, n. 24, che ha introdotto nel decreto 231 l’art. 24-ter[38].

 

3.1. La responsabilità degli enti collettivi per fatti di criminalità organizzata.

L’estensione agli enti di una responsabilità per la commissione di delitti associativi ha aperto una serie complessa di questioni ermeneutiche, legate, per un verso, alla possibilità di rimproverare all’ente la commissione dei reati scopo della societas sceleris e, per altro verso, alla possibilità di introdurre modelli organizzativi effettivamente idonei a prevenire la verificazione dei delitti elencati all’art. 24 ter.

La prima questione afferiva alla materialità dell’illecito amministrativo, sub forma di compatibilità con il criterio di ascrizione della responsabilità dell’interesse o del vantaggio[39].

Subito dopo l’entrata in vigore della novella, i peggiori timori della letteratura si erano infatti concretizzati in un provvedimento emesso in sede cautelare dal Gip presso il Tribunale di Nocera Inferiore, in data 14 ottobre 2011[40], che non si limitava a vagliare la responsabilità dell’ente per il solo reato associativo, ma l’estendeva a qualsiasi ipotesi di reato-fine, purché rientrante nel programma criminoso della societas sceleris[41].

Poco dopo anche la Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi su una sentenza di non luogo a procedere resa dal Tribunale di Catanzaro nell’ambito di un procedimento per associazione di tipo mafioso, sia pure con un obiter dictum, sostenne che: “l’ipotesi di un'eventuale responsabilità delle due società non comporta automaticamente l'esclusione di una possibile responsabilità delle persone fisiche per il reato associativo contestato, essendo tali diverse tipologie di responsabilità del tutto compatibili fra di loro, dal momento che non può negarsi, in ipotesi, che i reati-fine posti in essere dai componenti dell'associazione fossero realizzati anche nell'interesse delle società[42].

Si apriva così la strada allo stravolgimento del principio di tassatività delle incriminazioni, nel triplice significato di necessaria determinatezza o precisione[43] del precetto, del divieto di analogia, nonché di specialità[44], in forza del quale la responsabilità degli enti non ha natura generale, ma rimane circoscritta ai soli reati per la quale viene esplicitamente prevista[45].

La questione sembra essere stata risolta dalla Corte di Cassazione con la Sent. 3635/2014, quantomeno sotto il profilo della esclusione del sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente del profitto di reati scopo – non ricompresi nel catalogo dei reati presupposto elencati dal d.lgs. 231/01 – e non dal reato associativo[46].

La sentenza in esame, pur avendo ristabilito una interpretazione coerente con il “sistema 231” – e in particolare con il principio di legalità in esso espresso dall’art. 2 – ha lasciato comunque aperto l’interrogativo sulla possibilità in concreto di adottare modelli organizzativi idonei alla prevenzione dei reati associativi e, in particolare, di quei delitti “commessi avvalendosi delle condizioni del predetto articolo 416 bis, ovvero al fine di agevolare le associazioni previste dallo stesso articolo[47].

Si tratta, ci pare, di un problema difficilmente risolvibile sul piano esegetico.

Come abbiamo più volte ricordato, infatti, la disciplina del decreto 231 è pensata per far sì che un ente che svolge attività lecita adotti un sistema di prevenzione mediante organizzazione, finalizzato a evitare la commissione di reati o, in seconda battuta, di minimizzarne l’impatto sul sistema economico.

Finalità del tutto diverse da quelle tipicamente preventive, in quanto si rivolgono a soggetti produttrici di ricchezza e valore sociale e non a soggetti sospettati di contaminazioni con la criminalità organizzata.

Così inquadrata, la previsione dell’art. 24 ter del decreto 231, pur essendo stata di fatto sterilizzata sul piano applicativo dall’interpretazione restrittiva che ne ha dato la giurisprudenza di legittimità, presenta ancora numerosi aspetti problematici.

In primo luogo, perché getta un pericoloso ponte tra la disciplina dettata per l’ente lecito e quella prevista per gli enti illeciti, ovvero i reati associativi, sin dalla loro genesi pervasi da una logica emergenziale[48] che mal si concilia con gli obiettivi di ingegneria sociale affidati al decreto 231.

Sotto questo profilo, l’esistenza dell’art. 24 ter favorisce, anziché osteggiare, la non condivisibile tendenza della giurisprudenza ad estendere l’applicazione dell’art. 416 c.p. a ipotesi di criminalità economica meglio inquadrabili nella disciplina del concorso di persone nel reato[49].

Si finisce così per assecondare la convergenza in un unico modello preventivo-repressivo di fenomeni e discipline tra loro profondamente eterogenei e tradizionalmente mantenuti rigidamente distinti[50], e questo, come stiamo per vedere, anche in ragione della parallela evoluzione del sistema della prevenzione patrimoniale.

 

4. Gli enti collettivi nel Codice Antimafia.

Alla fine dello scorso decennio, in ragione del continuo affastellarsi di interventi legislativi non sempre coordinati tra loro quanto a ratio, principi e regole, il sistema prevenzionistico si presentava estremamente confuso e caotico, tanto da richiedere un drastico intervento di razionalizzazione, che il legislatore adottò con il d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159 battezzato “Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136[51].

Nella sua versione definitiva, il Codice antimafia[52] si presenta, piuttosto, come la legge fondamentale delle misure prevenzione, che trovano al suo interno una compiuta sistematizzazione, attorno ai due poli della prevenzione personale e patrimoniale, quest’ultima definitivamente concepita come sottosistema autonomo, nel quale un ruolo centrale viene svolto dalla confisca di prevenzione, regolata dall’art. 24.

Del resto, a partire dagli anni Ottanta si era progressivamente preso atto che uno dei punti di forza delle strutture di criminalità organizzata risiedesse – oltre che nella forza di intimidazione che deriva dal vincolo associativo – nella disponibilità di ingenti patrimoni liquidi, che costituivano al contempo il provento delle attività criminose da loro poste in essere – su tutte, il traffico di sostanze stupefacenti – e la provvista per investimenti da compiere nell’economia legale[53].

Follow the money divenne allora uno dei capisaldi dell’azione della nuova antimafia, che comprese come il denaro, talvolta, lascia più tracce delle persone[54].

L’Enforcement del sistema della prevenzione patrimoniale venne quindi progettato per assolvere alla duplice funzione di recidere il nesso che lega l’attività delle consorterie mafiose all’ottenimento di un beneficio economico ostacolando altresì lo svolgimento di ulteriori attività delinquenziali, la cui esecuzione si fonda sulla disponibilità di risorse liquide.

Del resto, come è stato notato ormai da più parti, la progressiva implementazione degli strumenti di “neutralizzazione e recupero[55] della ricchezza accumulata illecitamente rappresenta oggi una delle principali direttrici della politica criminale contemporanea, che, secondo alcuni[56], sarebbe ormai caratterizzata dal diktat “il delitto non paga”.

La realizzazione di questo scopo, che costituisce una declinazione del più ampio principio della effettività del diritto penale[57], sembra ormai affidato in via pressoché esclusiva allo strumento della confisca, istituto poliedrico, dogmaticamente sfuggente, cangiante[58], ma terribilmente efficace nel colpire i patrimoni personali – anche di terzi – accumulati in tutto o in parte illecitamente.

Ciò posto, in un contesto storico in cui i fenomeni economici trascendono le persone fisiche, risulta ormai evidente come vi siano nuove e ulteriori finalità di tutela, più efficacemente assolte da misure di prevenzione patrimoniali diverse dalla confisca, esclusivamente rivolte agli enti collettivi[59].

Di fronte al sempre maggiore utilizzo di strumenti di ingegneria societaria volti a favorire la segregazione patrimoniale, l’ablazione dei beni dei prevenuti, per quanto efficace, non può essere il solo strumento a disposizione di chi si proponga di recidere il legame tra economia sommersa ed economia legale.

La rigidità della confisca di prevenzione, inoltre, non si presta a bilanciare efficacemente interessi meritevoli di tutela da parte del legislatore, che sempre con maggiore frequenza possono trovarsi a confliggere al verificarsi di eventi criminosi.

Si pensi a tutti i casi di legami tra strutture criminali organizzate e soggetti economici dediti allo svolgimento di attività lecite, ma costituiti o alimentati con risorse provenienti da delitti, ovvero utilizzati per assicurarsi il controllo di peculiari settori di attività economiche, come nel caso degli appalti pubblici.

In tali casi, ben potrà accadere che vi sia una sorta di confusione tra quote di patrimonio lecitamente originato e flussi di denaro di provenienza illecita, magari in percentuali minime.

Di fronte a ipotesi di contaminazione marginale, i rigori della confisca di prevenzione mal si conciliano con l’esigenza di assicurare la prosecuzione dell’attività di impresa, a beneficio di Stakeholder – pubblici e privati – estranei alla criminalità organizzata.

L’esigenza di tutelare i soggetti terzi – dipendenti, consulenti, imprese fornitrici, ecc. – che entrino incolpevolmente in contatto con imprese contaminate è stata avvertita in particolar modo nel corso degli ultimi anni, anche in ragione della presa d’atto del diffondersi della criminalità organizzata in contesti territoriali profondamente diversi[60] da quelli in cui tradizionalmente hanno operato le mafie storiche, che ha fatto emergere la difficoltà di conciliare istituti poco duttili – come la già più volte menzionata confisca di prevenzione e come le misure interdittive antimafia – con le complesse esigenze e le numerose interrelazioni che caratterizzano i settori più evoluti dell’economia moderna.

In particolare, l’esigenza di bilanciare le diverse esigenze e i valori concorrenti che emergono nell’ambito del campo della prevenzione è alla radice delle proposte formulate dalla cd. “Commissione Fiandaca”[61], che già a partire dalla sua prima relazione[62] ha posto l’accento sulla necessità di ripensare il procedimento di prevenzione patrimoniale, aggiornandolo al mutato quadro fenomenologico della criminalità mafiosa.

Talune delle proposte formulate dalla Commissione Fiandaca sono state effettivamente riprese dal legislatore, che con la già richiamata l. 17 ottobre 2017, n. 161, ha introdotto significative modifiche anche nell’ambito delle misure di prevenzione patrimoniali diverse dalla confisca (Capo V del Libro I del Codice Antimafia), nel quale ha trovato collocazione il neonato istituto del controllo giudiziale delle aziende, volto ad incidere anche sull’operatività delle cd. interdittive antimafia, di natura amministrativa.

Questa mutata sensibilità ci porta a ritenere che emerga oggi una nuova partizione nell’ambito della prevenzione patrimoniale, categoria che non si esaurisce nel solo Codice antimafia, e nella quale trovano collocazione, quali sottocategorie, misure di prevenzione rivolte alle persone fisiche e misure di prevenzione che interessano invece gli enti collettivi.

La prima di esse è prevista all’art. 34 del Codice, che disciplina l’amministrazione giudiziaria dei beni connessi ad attività economiche, sulla base della quale, ove ricorrano sufficienti indizi per ritenere che l’esercizio di determinate attività economiche e imprenditoriali “sia direttamente o indirettamente sottoposto alle condizioni di intimidazione o di assoggettamento previste dall'articolo 416-bis del codice penale o possa comunque agevolare l'attività di persone nei confronti delle quali è stata proposta o applicata una delle misure di prevenzione personale o patrimoniale previste dagli articoli 6 e 24[63],  il Tribunale può – anche dopo aver disposto nuove indagini e verifiche patrimoniali – disporre l’amministrazione giudiziaria “delle aziende o dei beni utilizzabili, direttamente o indirettamente, per lo svolgimento delle predette attività economiche, su proposta dei soggetti di cui al comma 1 dell'articolo 17 del presente decreto”.

Il successivo art. 34 bis, che rappresenta  una delle novità più significative introdotte con la riforma del 2017 regolamenta il controllo giudiziario delle aziende, la cui ratio consiste nel limitare l’applicazione dell’amministrazione giudiziaria dei beni, del sequestro e della confisca, “nei casi in cui l’agevolazione “risulti occasionale (...) e sussistano circostanze di fatto da cui si possa desumere il pericolo concreto di infiltrazioni mafiose idonee a condizionare” l’attività d’impresa[64].

Particolarmente significativo – e di grande interesse – è il rapporto tra controllo giudiziario e le comunicazioni di cui all’art. 84 del Codice antimafia.

La misura, infatti, può essere richiesta anche da una impresa destinataria di informazione antimafia interdittiva ai sensi dell'articolo 84, comma 4, che abbia proposto l'impugnazione del relativo provvedimento del Prefetto.

In tal caso il Tribunale, sentiti il Procuratore distrettuale competente e gli altri soggetti interessati, provvedendo con le forme dell’art. 127 c.p.p., qualora decida che ne ricorrano i presupposti, può accogliere la richiesta, con l’effetto di sospendere l’efficacia del provvedimento interdittivo.

Permane dunque in capo al Tribunale un penetrante potere di controllo sull’attività di impresa, che può condurre alternativamente alla revoca del controllo giudiziario, ovvero all’applicazione di altra e più severa misura di prevenzione patrimoniale.

 

5. Le misure di contrasto alle infiltrazioni mafiose nella disciplina anticorruzione: il comma 10 dell’art. 32, d.l. 90/2014.

Prima di avviarci alle conclusioni, resta da esaminare un ultimo elemento di questo frastagliato elemento, che si trova tra le pieghe della disciplina anticorruzione.

Nel corso degli ultimi decenni, antimafia e anticorruzione – due settori storicamente e dogmaticamente ben distinti tra loro – hanno finito per convergere in un modello unitario[65] fortemente influenzato da logiche emergenziali e da istanze ascrivibili a quello che è stato definito come populismo penale.

Emblematica, in tal senso, l’assimilazione tra criminalità politico-amministrativa e criminalità organizzata operata dalla l. 161/2017, che ha esteso l’applicazione delle misure di prevenzione di cui al d.lgs. 159/2011 ai sospettati di reati di corruzione.

Nel completare il nostro excursus, non possiamo quindi trascurare alcune riflessioni su quanto disposto dall’art. 32, c. 10, del d.l. 90/2014.

Nella ricca trama dell’art. 23 del d.l. 90/2014[66] – ove si prevedono “Misure straordinarie di gestione, sostegno e monitoraggio di imprese nell'ambito della prevenzione della corruzione”, la cui ratio è evitare che al verificarsi di episodi corruttivi che coinvolgano una stazione appaltante o una impresa appaltatrice possa essere leso l’interesse al corretto completamento di un’opera strategica o comunque di interesse pubblico[67] – il comma 10 regola la particolare ipotesi di applicazione delle misure straordinarie a una impresa già destinataria di una interdittiva antimafia.

Come abbiamo visto, gli scopi di tutela affidati all’interdittiva antimafia ne giustificano – in parte – il rigore repressivo: è sufficiente infatti che vi sia un mero sospetto di infiltrazione, per escludere l’azienda da ogni bando pubblico e revocare i contratti in essere, relegandola così al di fuori del consesso economico lecito.

Tuttavia, tale rigore mal si concilia con il fenomeno dell’infiltrazione mafiosa in contesti economici di tipo essenzialmente lecito, come quelli che caratterizzano le regioni produttive del nord Italia.

Gli effetti di una interdittiva antimafia, infatti, sono immediati e irreversibili, soprattutto per quei soggetti economici che si trovano ad operare prevalentemente, in via diretta o indiretta, con la Pubblica Amministrazione: tutti i contratti pubblici in essere debbono essere immediatamente risolti dalle Stazioni appaltanti e l’impresa non può più partecipare ad alcuna gara ad evidenza pubblica.

Nonostante si tratti di un provvedimento ad altissimo contenuto afflittivo, trattandosi di misura amministrativa, il provvedimento viene emesso dal Prefetto, che decide all’esito di una sommaria istruttoria, ed è ricorribile al Tar e, in ultima istanza, al Consiglio di Stato.

Per temperare la severità di questa previsione nell’esclusiva prospettiva della tutela di interessi pubblicistici, quali la salvaguardia dei livelli occupazionali, il corretto adempimento di opere pubbliche strategiche e la corretta erogazione di servizi essenziali, il legislatore, dopo avere introdotto l’art. 32 del d.l. 90/2014, ha provveduto a coordinare questa disposizione con il d.lgs. 13 ottobre 2014, n. 153, che ha novellato l’art. 92 del Codice antimafia, attribuendo al Prefetto competente per l’emanazione del provvedimento ostativo un dovere di verifica della sussistenza dei presupposti per l’applicazione delle misure straordinarie e di comunicazione al Presidente dell’ANAC[68].

Al di là di una lettura funzionalista, alla luce della quale l’obbligo di comunicazione sarebbe volto “a dare impulso, con una chiara funzione di garanzia, a quella interlocuzione virtuosa che nelle fattispecie di matrice corruttiva è normativamente prevista[69], il dovere del Prefetto di informare il Presidente – e non l’Autorità nel complesso – costituisce il corollario, sul versante strettamente amministrativo, delle previsioni in materia di comunicazioni all’ANAC da parte della magistratura inquirente.

La procedura delineata dal comma 10 differisce in gran parte da quanto abbiamo esaminato con riferimento ai commi precedenti dell’art. 32.

In questo caso, infatti, il giudizio sul pericolo di infiltrazione è già implicito nella segnalazione che viene fatta dal Prefetto all’ANAC, costituendo l’elemento sulla base del quale il Prefetto si è determinato ad emettere una comunicazione antimafia di tipo interdittivo.

All’ANAC non viene quindi richiesto di valutare la gravità del quadro indiziario, bensì di prendere in considerazione i possibili effetti del provvedimento inibitorio, bilanciando l’esigenza di estromettere dall’ambito della contrattazione pubblica le imprese che abbiano dimostrato una permeabilità alla criminalità di tipo mafioso, con la necessità di garantire il corretto adempimento dei contratti pubblici[70].

Sin dall’avvio della procedura valutativa si produce un effetto inibitorio sia sui contratti in corso di esecuzione, sia nei confronti del provvedimento interdittivo: la stazione appaltante, infatti, non può né risolvere il contratto, né garantirne la prosecuzione, stante il dettato degli artt. 91, c. 1 e c. 3 del d.lgs. 159/2011.

La fase di valutazione deve necessariamente comprendere anche una precisa definizione del perimetro dei contratti oggetto di commissariamento, all’esito della quale il Prefetto, avvalendosi del contributo dell’ANAC e delle altre istituzioni eventualmente coinvolte, indicherà, con proprio decreto, i commissari prefettizi e i contratti di loro competenza.

Sulla base di questa procedura, si viene a creare una biforcazione nella Governance dell’impresa coinvolta: la gestione commissariale, relativa ai soli contratti oggetto del decreto del Prefetto, deve convivere con la gestione ordinaria, di competenza degli organi amministrativi nominati dai titolari dell’azienda[71].

Tuttavia, risulta evidente come il commissariamento per finalità antimafia, pur riguardando formalmente solo determinati contratti, si possa tradurre, nella prassi, in una gestione pressoché integrale dell’impresa, tanto che in dottrina si è osservato che sarebbe probabilmente opportuno dichiarare, contestualmente alla nomina dei commissari, la decadenza degli organi amministrativi[72].

Quanto al profilo temporale, la durata della misura straordinaria è strettamente connessa al provvedimento inibitorio, pertanto, ne cesseranno gli effetti nelle ipotesi di annullamento dell’interdittiva disposto con sentenza passata in giudicato, di accoglimento di una istanza cautelare, ovvero di aggiornamento dell’informazione ai sensi dell’art. 91, c. 5, del Codice antimafia, nonché nel caso di provvedimento di confisca, sequestro o amministrazione giudiziaria dell’impresa.

 

6. Notazioni conclusive.

   Giunti al termine di questa nostra esplorazione nel tortuoso territorio delle misure di contrasto all’infiltrazione delle strutture di criminalità organizzata nell’economia legale, specificamente rivolte agli enti collettivi, possiamo azzardare alcune notazioni conclusive.

Abbiamo preso le mosse dalla disamina degli antesignani della moderna prevenzione patrimoniale, osservando come la legislazione in materia antimafia del 1965, prima, e del 1982, poi, rappresentino per certi versi l’archetipo del sistema attualmente vigente.

L’idea di affiancare a misure personali, dirette a contenere la pericolosità sociale di soggetti sospettati di far parte di strutture di criminalità mafiosa, misure di natura patrimoniale volte a depotenziarne la capacità di azione economica ha rappresentato uno spartiacque nella storia del diritto penale italiano.

All’epoca in cui questo nuovo modello prese avvio, esisteva un privilegio per gli enti collettivi, consistente nella loro impunità sul piano penale; pertanto, il ricorso alle misure di prevenzione rappresentava l’unica soluzione costituzionalmente legittima – assieme al più problematico ricorso alle misure di sicurezza[73] – per attrarre anche le persone giuridiche nel fuoco di un diritto punitivo diverso da quello propriamente amministrativo.

Questo quadro è profondamente mutato con l’entrata in vigore del d.lgs. 231/01, che rappresenta, a nostro avviso, la legge fondamentale in materia di responsabilità degli enti nell’ordinamento italiano.

Come abbiamo cercato di dimostrare, il legislatore del 2001 aveva preso in considerazione le medesime esigenze già vagliate dal legislatore della prevenzione e il sistema sanzionatorio che decise di introdurre, suddiviso tra misure cautelari e sanzioni vere e proprie, è tale da coprire tutte le necessità di tutela che possono verificarsi nei rapporti economici tra soggetti privati e tra questi e la Pubblica Amministrazione, garantendo al contempo le esigenze di chi deve contrastare i tentativi di infiltrazione di enti illeciti nell’economia legale e il rispetto dei principi costituzionali in materia di libertà di impresa.

Solo nel decreto 231, infatti, l’ente è davvero soggetto di diritti – su tutti, quello di difesa, che si realizza pienamente solo nel contraddittorio anticipato, da svolgersi davanti ad un giudice terzo – e non oggetto di tutela.

Il paradosso è che dal 2001 a oggi, il confine tra disciplina sanzionatoria rivolta all’ente lecito e la disciplina penale volta a punire gli aderenti ad un sodalizio ontologicamente illecito, anziché irrigidirsi, è diventato mobile.

Come abbiamo rilevato esaminando i contrasti giurisprudenziali che si sono sviluppati a seguito dell’introduzione nel decreto 231/01 dell’art. 24-ter, e analizzando la più recente legislazione in materia di contrasto alla corruzione politico-amministrativa, emerge come il legislatore faccia ricorso con sempre maggiore frequenza a strumenti preventivi, dotati di particolare capacità afflittiva –  rivolti esclusivamente a persone giuridiche nell’ambito delle quali si sospetta possa essersi verificato un crimine.

I modelli repressivi progettati per reprimere forme di criminalità che si sviluppano nell’ambito dell’attività funzionale di enti leciti, dotati di diritti e portatori di interessi di rango costituzionale, sono stati progressivamente ibridati con l’innesto di misure tipicamente utilizzate per prevenire e reprimere le più gravi forme di criminalità organizzata.

Così, accanto ad un sistema volto al bilanciamento dell’interesse alla repressione degli illeciti con i diritti dei singoli, basato sull’accertamento in contraddittorio di un fatto, viene introdotto un ricco apparato di misure di preventivo, basate sul sospetto.

Si tratta dell’ennesimo modello a doppio binario, nel quale al verificarsi di un fatto – ad es., il coinvolgimento di uno o più esponenti di una impresa in vicende alle quali possano essere attribuite le proteiformi etichette di criminalità organizzata o di corruzione – possono svilupparsi procedimenti paralleli – formalmente amministrativi – governati da logiche del tutto antitetiche.

Nell’ipotesi più favorevole per l’impresa, infatti, la sua responsabilità potrà essere vagliata con la lente del d.lgs. 231/01, garantendole così, a norma dell’art. 36, il diritto di essere giudicata nel contraddittorio tra le parti, da un giudice penale, che deve valutarne la responsabilità secondo la regola processuale dell’oltre ogni ragionevole dubbio.

Viceversa, nell’ipotesi peggiore, la stessa impresa potrà essere colpita – inaudita altera parte – da provvedimenti prefettizi – tali essendo sia le interdittive antimafia, sia le misure di cui all’art. 32, d.l. 90/2014, emessi sulla base del diverso criterio del “più probabile che non[74].

Nel mezzo, vi è il meno afflittivo provvedimento adottato dal Tribunale di prevenzione ai sensi dell’art. 34 bis del Codice Antimafia.

In conclusione.

Le misure di contrasto alle infiltrazioni della criminalità organizzata nell’economia lecita, rivolte agli enti collettivi, formano un arcipelago vasto, insidioso e ricco di tradizioni diverse, alcune delle quali tra loro del tutto antitetiche.

Ciò che manca, è una bussola che possa orientare con certezza i navigatori – magistratura inquirente e requirente, ANAC, Prefetti, ma soprattutto gli operatori economici – nel loro viaggio.

Una lacuna che è auspicabile il legislatore voglia presto colmare.

 

[1] Così si esprimeva il legislatore del 2001: “Tale responsabilità, poiché conseguente da reato e legata (per espressa volontà della legge delega) alle garanzie del processo penale, diverge in non pochi punti dal paradigma di illecito amministrativo ormai classicamente desunto dalla L. 689 del 1981. Con la conseguenza di dar luogo alla nascita di un tertium genus che coniuga i tratti essenziali del sistema penale e di quello amministrativo nel tentativo di contemperare le ragioni dell'efficacia preventiva con quelle, ancor più ineludibili, della massima garanzia”. Relazione al decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, punto 1.1, cit., 11. È noto peraltro come la questione della natura della responsabilità dell’ente rimanga una delle maggiormente dibattute in letteratura. Per una ricognizione delle diverse posizioni, volendo: T. Guerini, Diritto penale ed enti collettivi, Torino, 2018, 42 ss.

[2] Si veda, ad esempio, lo scritto di C.E. Paliero, La colpa di organizzazione tra responsabilità collettiva e responsabilità individuale, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1-2/2018, 175 ss., nel quale l’Autore affronta il problema della allocazione della responsabilità soggettiva tra ente collettivo e autore individuale.

[3] F. Palazzo-F. Viganò, Diritto penale. Una conversazione, Bologna, 2018, 115.

[4] Osservava Giorgio Marinucci che l’archetipo secondo il quale “la persona fisica, non la persona giuridica, può commettere reati”, condensato nel principio Societas delinquere non potest, “è un’idea che la dottrina penalistica contemporanea dell’Europa continentale ha sempre presentato come ovvia e con radici antichissime, anche se il broccardo che la racchiude ha di vetusto solo la lingua nella quale è stato espresso”. G. Marinucci, La responsabilità penale delle persone giuridiche. Uno schizzo storico-dogmatico, in Riv. it. dir. proc. pen., 2007, 445. Per una ricostruzione dell’evoluzione storica di questo “annoso e tormentato problema” (così G. Delitala, Il fatto nella teoria del reato, Padova, 1930, 155), si veda lo studio di G. De Simone, Persone giuridiche e responsabilità da reato. Profili storici, dogmatici e comparatistici, Pisa, 2012, 40 ss.

[5] Si veda sul punto il ricco studio di V. Mongillo, La responsabilità penale tra individuo ed ente collettivo, Torino, 2018.

[6] T. Vormbaum, La filosofia dell’illuminismo nel dibattito penalistico tedesco odierno, in AA. VV. (a cura di A. Cavaliere-C. Longobardo-V. Masarone-F. Schiaffo-A. Sessa), Politica criminale e cultura giuspenalistica. Scritti in onore di Sergio Moccia, Napoli, 2017, 63-64.

[7] In un suo scritto di alcuni anni fa, Filippo Sgubbi osservava: “E d’improvviso si constata che un intero mondo di concetti, di categorie e di garanzie è diventato anacronistico, e si è ridotto al ruolo di un grande racconto di antichi uomini bianchi”. F. Sgubbi, Osservando oggi il diritto penale: brevi riflessioni, in Scritti in onore di Luigi Stortoni, Bologna, 2016. 83. Di recente, le considerazioni già espresse dall’Autore sono state riprese nel volume Id., Il diritto penale totale, Bologna, 2019.

[8] Il sintagma è ormai di uso comune nella penalistica italiana, anche se non sempre con un significato univoco. Agli albori del dibattito, veniva utilizzato per distinguere il diritto penale in senso stretto dalle altre sanzioni in senso lato afflittive e, in particolare, con riferimento al cd. diritto penale-amministrativo, formatosi a seguito dell’entrata in vigore della cd. “legge di depenalizzazione”, l. 689/1981. Sul punto, senza pretesa di completezza: P. Nuvolone, Pena (voce), in Enc. Dir., XXXII, Milano, 1982, 787-788; F. Bricola, La depenalizzazione nella legge 24 novembre 1981, n. 689: una svolta «reale» nella politica criminale? in Pol. dir., 1982, 359 ss.; C. E. Paliero, La legge 689/81: prima codificazione del diritto penale amministrativo in Italia in Pol. dir., 1-1983, 117 ss. Oggi la stessa formula viene utilizzata nell’ambito del rapporto tra diritto penale interno e giurisprudenza CEDU, per tentare di risolvere il problema dell’esatta qualificazione delle sanzioni e delle infrazioni, al di là delle possibili “truffe delle etichette”. Così ad es. R. Russo, Il diritto punitivo della CEDU e il “tranello” di civil law al banco di prova della confisca, in Cass. pen., 4-2016, 1805 ss.; M. Scoletta, Materia penale e retroattività favorevole: il ‘caso' delle sanzioni amministrative, in Giur. cost., 4-2016, 1401 ss., che parla di “tendenza progressivamente espansiva del perimetro del diritto punitivo sottoposto allo statuto garantistico convenzionale”.

[9] La prima Commissione parlamentare antimafia fu istituita nel 1962 e la sua cognizione era limitata alla sola Cosa nostra siciliana. G. Turone, Il delitto di associazione mafiosa, III Ed., Milano, 2015, 3

[10] E, nello specifico, della sua sussumibilità nella fattispecie prevista dall’art. 416 c.p., ovvero della necessità di approntare un’autonoma fattispecie incriminatrice che delineasse i caratteri del sodalizio mafioso. Ripercorre questa vexata quaestio: Turone G., Il delitto di associazione mafiosa, cit., 4 ss.

[11] F. Tagliarini, Le misure di prevenzione contro la mafia, in AA.VV., Le misure di prevenzione, Milano, 1975, 363 ss. La normativa del 1965 aveva contenuto prettamente preventivo, anche se prevedeva anche talune disposizioni di carattere sostanziale, ossia aggravamenti di pena per la contravvenzione già prevista dall’art. 12 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (allontanamento abusivo dal comune di soggiorno obbligato), e per una serie di altri reati commessi da uno dei soggetti indicata dall’art. 1 della L. n. 575 del 1965, già sottoposti con provvedimento definitivo a misura di prevenzione.

[12] S. Lupo, Storia della mafia, III Ed., Roma, 2004, 212.

[13] V. Maiello, La prevenzione ante delictum: lineamenti generali, in V. Maiello (a cura di), La legislazione penale in materia di criminalità organizzata, misure di prevenzione ed armi in F. Palazzo-C.E. Paliero (diretto da), Trattato teorico pratico di diritto penale, Torino, 2015, 300.

[14] Per tutti: M. Sbriccoli, Caratteri originari e tratti permanenti del sistema penale italiano, in Storia d’Italia, Annali, XIV, Legge Diritto Giustizia, Torino, 1998, 487 ss.

[15] La scelta di non introdurre in Costituzione alcun riferimento alle misure di prevenzione è stata letto in maniera opposta nella dottrina costituzionalistica. Secondo Giuliano Amato, tale scelta fu dovuta alla profonda repulsione dei costituenti per istituti dei quali aveva abusato il legislatore fascista (G. Amato, Potere di polizia e potere del giudice nelle misure di prevenzione, in Pol. dir., 1974, 340). Paolo Barile sostenne invece che la decisione di ignorare il problema fosse dovuta alla volontà di non imbrigliare il legislatore ordinario, al quale veniva rimessa la scelta se utilizzare o meno lo strumento della prevenzione. (P. Barile, Diritti dell’uomo e libertà fondamentali, Bologna, 1984, 137).

[16] G. Insolera-T. Guerini, Diritto penale e criminalità organizzata, Torino, 2019, 204.

[17] Commissione Parlamentare Antimafia, Testo integrale della relazione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia, I, Roma, 1973, 75 ss.

[18] A. Jamieson, Le organizzazioni mafiose, in L. Violante (a cura di) Storia d’Italia, Annali, XII, La criminalità, Torino, 1997, 461 ss.

[19] Nella sua formulazione originale, la l. 575/1965 consisteva di dieci articoli, attraverso i quali si prevedevano forme di estensione delle misure di prevenzione già previste per i comuni sospetti anche agli “indiziati di appartenere ad associazioni mafiose” (come recitava l’art. 1 della legge in parola).

[20] F. Bricola, Forme di tutela ante delictum e profili costituzionali della prevenzione, in AA. VV., Le misure di prevenzione, Milano, 1975; F. Tagliarini, Le misure di prevenzione contro la mafia, cit.; P. Nuvolone, Misure di prevenzione e misure di sicurezza, cit., 134.

[21] Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno della mafia, VII legislatura, Relazione conclusiva, doc. XXIII, n. 2 consegnata alla presidenza delle Camere il 4 febbraio 1976, 318 ss. Così, la disciplina del 1965 fu oggetto di alcune modifiche operate dalla legge 14 ottobre 1974, n. 479 e, più significativamente, dalla legge 22 maggio 1975, n. 152. Alla luce di quelle implementazioni, il sistema delle disposizioni  contro i soggetti indiziati di appartenere ad associazioni mafiose si configurava quindi nei seguenti sintetici termini: a) la diffida, affidata alla competenza del questore; b) il rimpatrio, con foglio di via obbligatorio delle persone pericolose, disposto con provvedimento motivato dal questore; c) la sorveglianza speciale della pubblica sicurezza, disposta dal tribunale su proposta  del  questore,  oppure del pubblico ministero; d) in aggiunta alla sorveglianza speciale: 1) il divieto di soggiorno in uno o più comuni o più province; 2) l’obbligo - riservato ai casi di particolare pericolosità - del soggiorno in un determinato  comune;  e)  in  aggiunta alle misure di cui ai precedenti punti c) e d) o anche autonomamente, quella della  sospensione  provvisoria  dell’amministrazione dei beni personali; f) una serie di misure amministrative (divieto di rilascio ovvero decadenza da licenze e concessioni amministrative e cancellazione da albi per l’esercizio di particolari attività) come conseguenza di diritto dei provvedimenti di applicazione della sorveglianza speciale. Per un approfondimento: G. Insolera-T. Guerini, Diritto penale e criminalità organizzata, cit., 206.

[22] Per un approfondimento: P. Arlacchi, La mafia imprenditrice, La mafia imprenditrice, Milano, 2007; L. Violante, La mafia dell’eroina, Roma, 1987, passim.

[23] Per un approfondimento sulla confisca di prevenzione, per tutti: V. Maiello, Le singole misure personali e patrimoniali, in V. Maiello (a cura di), La legislazione penale in materia di criminalità organizzata, misure di prevenzione ed armi, cit., 381 ss.

[24] Si v. sul punto: D. Fondaroli, La poliedrica natura della confisca, in Arch. pen., 2-2019; V. Manes, L’ultimo imperativo della politica criminale: nullum crimen sine confiscatione, in Riv. it. dir. proc. pen., 3-2015, 1259 ss.

[25] O. Di giovine, Lineamenti sostanziali del nuovo illecito punitivo, in G. Lattanzi (a cura di), Reati e responsabilità degli enti, II ed., Giuffrè, 2010, 4.

[26] Relazione al decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 23, punto 1, cit., 9-10.

[27] Il d.lgs. 231/01 considera quale fenomeno patologico quello della cd. impresa criminale, prevedendo all’art. 16, c. 3, l’obbligo per il giudice di disporre l’interdizione definitiva di un ente o di una sua unità organizzativa, qualora esso venga “stabilmente utilizzato allo scopo unico o prevalente di consentire o agevolare la commissione di reati in relazione ai quali è prevista la sua responsabilità”. Sul punto: M. Panasiti, Sub art. 16, in M. Levis-A. Perini (a cura di), La responsabilità amministrativa delle società e degli enti, cit., 344 ss.

[28] Per una disamina del quale si v., per tutti: T.E. Epidendio, Il sistema sanzionatorio e cautelare, in AA.VV., Enti e responsabilità da reato. Accertamento, sanzioni e misure cautelari, Milano, 2006, 279.

[29] Per un approfondimento sul sistema sanzionatorio del decreto 231/2001, si rimanda a: L.D. Cerqua-D. Fondaroli, sub art. 9, in M. Levis- A. Perini, La responsabilità, cit., 231 ss.; R. Guerrini, Le sanzioni a carico dell’ente, cit., 49 ss.; C. Piergallini, I reati presupposto della responsabilità dell’ente e l’apparato sanzionatorio, cit., 211 ss.

[30] Così: S. R. Palumbieri, Il ravvedimento post delictum dell’ente, in A- Cadoppi- S. Canestrari-A. Manna-M. Papa, Diritto penale dell’economia, Tomo II, Milano, 2017, 2686.

[31] Sul punto: C. Piergallini, I reati presupposto della responsabilità dell’ente e l’apparato sanzionatorio, in G. Lattanzi (a cura di), Reati e responsabilità degli enti, cit., 251.

[32] Per tutti: F. Galgano, Art. 41 Cost., in Commentario della Costituzione. Rapporti economici, Tomo II, Bologna, 1982.

[33] Sono considerazioni che abbiamo già espresso in T. Guerini, Diritto penale ed enti collettivi, cit., 41, al quale ci permettiamo di rinviare per un ulteriore approfondimento.

[34] Adottiamo il termine nell’accezione proposta da G. Insolera, Perché non possiamo non dirci liberali, in Ind. pen., 1-2017, 3 ss., oggi anche in Id., Declino e caduta del diritto penale liberale, Pisa, 2019, 105 ss.

[35] Al momento dell’entrata in vigore del decreto 231 – anche a causa di una serrata trattativa tra legislatore ed esponenti delle associazioni di rappresentanza di impresa, il novero delle fattispecie dalle quali poteva derivare la responsabilità degli enti collettivi venne circoscritto a poche ipotesi dolose, indicate rispettivamente all’art. 24 (indebita percezione di erogazioni, truffa in danno dello Stato o di un ente pubblico o per il conseguimento di erogazioni pubbliche e frode informatica in danno dello Stato o di un ente pubblico) e all’art. 25 (concussione e corruzione). Così L. Stortoni, I reati per i quali è prevista la responsabilità degli enti, in Responsabilità degli enti per i reati commessi nel loro interesse. Atti del convegno di Roma 30 novembre – 1 dicembre 2001, in Cass. pen., 2003, supplemento al n. 6, 68.

[36] Sull’ipertrofismo del diritto penale in Italia e sulla sua incidenza sul principio di extrema ratio molto si è scritto e molto si continua a scrivere. Imprescindibile sul punto la ricerca di C. E. Paliero, «Minima non curat praetor», Ipertrofia del diritto penale e decriminalizzazione dei reati bagatellari, Milano, 1985, 3 ss.). Più di recente, il tema è stato affrontato – con una particolare attenzione al formante comparatistico – da G. P. Demuro, Ultima ratio. Alla ricerca dei limiti di espansione del diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 4-2013, 1674. Sull’impatto della costante espansione dell’universo penalistico, si vedano anche le riflessioni di M. Romano, Ripensare il diritto penale (a dieci anni dalla scomparsa di Federico Stella), in Riv. it. dir. proc. pen., 1-2017, 5-6.; G. Fiandaca, Prima lezione di diritto penale, Roma-Bari, 2017, 46-47; F. Sgubbi, Il diritto penale totale, cit., 23.

[37] Per un’analisi dei quali rimandiamo al volume di F. Centonze-M. Mantovani (a cura di), La responsabilità «penale» degli enti. Dieci proposte di riforma, Bologna, 2016. Più di recente, si veda anche L. Pistorelli, Responsabilità degli enti: le ragioni di una riforma possibile, in Resp. amm. soc. enti, 4-2018, 5 ss. Il contributo ha natura introduttiva alla raccolta di saggi contenuti nel fascicolo, ciascuno dei quali esamina, in prospettiva di riforma, un diverso aspetto del sistema 231.

[38] In forza del quale l’ente risponde per i reati di “associazione per delinquere” (art. 416 c.p.), “associazione per delinquere finalizzata a commettere delitti in materia di immigrazione” (art. 416 VI c. c.p.), “associazioni di tipo mafioso anche straniere” (art. 416 bis c.p.), e di “associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope” (art. 74 D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309), nonché dei delitti di sequestro di persona a scopo di estorsione (art. 630 c.p.) e di scambio elettorale politico mafioso (art. 416-ter c.p.). Per un approfondimento, volendo: F. Consorte-T. Guerini, Reati associativi e responsabilità degli enti: profili dogmatici e questioni applicative, in Resp. amm. soc. enti, 2-2013, 265 ss.

[39] Sul punto si rimanda al lavoro di A. Astrologo, «Interesse» e «vantaggio» quali criteri di attribuzione della responsabilità dell’ente nel d.lgs. 231/2001, in Ind. pen., 2003, 656.

[40] Disponibile all’indirizzo: http://www.reatisocietari.it/images/ordinanza%20gip%20nocera.pdf.

[41] In questo senso: L. D. Cerqua, L’ente intrinsecamente illecito nel sistema delineato dal d.lgs. 231/2001, in Resp. amm. soc. enti, 2-2012, 10.

[42] Cass. Pen., Sez. III, 24 gennaio 2014, n, 3635, in Giur. it., 4-2014, con nota di V. Maiello, La confisca ex d.lgs. 231/2001 nella sentenza Ilva, 966 ss. Per un commento alla sentenza si veda anche: B. Carbone-P. Orzalesi, Il principio di tassatività in materia di responsabilità amministrativa degli enti con riferimento ai reati fine del delitto di associazione per delinquere. Commento ad una recente sentenza della Suprema Corte e ricadute applicative ai fini della costruzione dei Modelli organizzativi, in Resp. amm. soc. enti, 3-2014, 147 ss.

[43] G. Marinucci-E. Dolcini-G.L. Gatta, Manuale di Diritto Penale, Parte Generale, VIII Ed., Milano, 2019, 69 ss.

[44] M. Mattalia, sub Art. 2, in La responsabilità amministrativa delle società e degli enti, commentario diretto da M. Levis-A. Perini, Bologna, 2014, 115.

[45] È dunque compito esclusivo del legislatore definire quali siano i reati che costituiscono il presupposto della responsabilità amministrativa degli enti. Hanno avuto occasione di ribadirlo anche le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, che, chiamate a pronunciarsi sulla estensione della responsabilità degli enti in relazione al delitto di falsità nelle relazioni e nelle comunicazioni delle società di revisione, precedentemente punito dall’art. 174-bis del d.lgs. 58/1998 e ora configurato all’art. 27 del d.lgs. 39/2010 – non richiamato espressamente tra i reati presupposto – hanno avuto modo di affermare che: “non vi è spazio per appellarsi ad ipotesi di integrazione normativa della fattispecie, a mezzo di un possibile rinvio cd. “mobile”, poiché - al di là di qualsiasi quesito coinvolgente questa delicata materia - la volontà legislativa risulta evidente, senza postulare ulteriori apporti ermeneutici, quando sia inquadrata nella complessiva operazione riformatrice disposta dal legislatore mediante il D. Lgs. n. 39 del 2010”. Cass. Pen., SS. UU., 23 giugno 2011, n. 34476.

[46] In tale contesto, la Corte ha colto l’occasione per affermare il principio di diritto per cui, nel caso di reati presupposto estranei al sistema 231, “la rilevanza di quelle fattispecie [non] può essere indirettamente recuperata, ai fini della individuazione del profitto confiscabile, nella diversa prospettiva di una loro imputazione quali delitti-scopo del reato associativo (…), poiché in tal modo la norma incriminatrice di cui all'art. 416 c.p. - essa, sì, inserita nell'elenco dei reati-presupposto ex cit. D. Lgs., art. 24 ter, a seguito della modifica apportata dalla L. 15 luglio 2009, n. 94, art. 2 - si trasformerebbe, in violazione del principio di tassatività del sistema sanzionatorio contemplato dal D. Lgs. n. 231 del 2001, in una disposizione “aperta”, dal contenuto elastico, potenzialmente idoneo a ricomprendere nel novero dei reati-presupposto qualsiasi fattispecie di reato, con il pericolo di un'ingiustificata dilatazione dell'area di potenziale responsabilità dell'ente collettivo, i cui organi direttivi, peraltro, verrebbero in tal modo costretti ad adottare su basi di assoluta incertezza, e nella totale assenza di oggettivi criteri di riferimento, i modelli di organizzazione e di gestione previsti dal citato D. Lgs., art. 6, scomparendone di fatto ogni efficacia in relazione agli auspicati fini di prevenzione”.

[47] G. Insolera-T. Guerini, Diritto penale e criminalità organizzata, cit., 187.

[48] Lo ha messo nitidamente in luce G. Insolera, L’associazione per delinquere, cit., 277. Sul punto, si veda anche M. Donini, Il diritto penale di fronte al “nemico”, in AA.VV., Scritti per Federico Stella, Napoli, 2003, 79 ss, 81.

[49] S. Del Corso, I nebulosi confini tra associazione per delinquere e concorso di persone nel reato continuato, in Cass. pen., 1985, 621 ss.; riaffermano la possibilità di una distinzione, peraltro con argomenti più attenti al profilo teorico che a quello della concreta applicazione giurisprudenziale: G. De Francesco, voce Associazione per delinquere e associazione di tipo mafioso, in Dig. disc. pen., I, Torino, 1987, 293 ss.; G. De Vero, Tutela penale dell’ordine pubblico. Itinerari ed esiti di una verifica dogmatica e politico-criminale, Milano, 1988, 264 ss.

[50] F. Palazzo, Associazioni illecite e illeciti delle associazioni, in Riv. it. dir. proc. pen., 2-1976, 418 ss.

[51]Con la legge di delega, l. 13 agosto 2010, n. 136, rubricata “Piano straordinario contro le mafie, nonché delega al Governo in materia di normativa antimafia”, il Parlamento aveva dato incarico all’esecutivo di operare “una completa ricognizione della normativa penale, processuale e amministrativa vigente in materia di contrasto della criminalità organizzata, ivi compresa quella già contenuta nei codici penale e di procedura penale” (art. 1, c.2), prevedendo inoltre che il Governo, “previa ricognizione della normativa vigente in materia di misure di prevenzione” provvedesse “a coordinare e armonizzare in modo organico la medesima normativa, anche con riferimento alle norme concernenti l'istituzione dell'Agenzia nazionale per l'amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata” (art. 3, c.1). (v. F. Menditto, Gli strumenti di aggressione ai patrimoni illecitamente accumulati dalle organizzazioni di tipo mafioso, in questa Rivista, 28 gennaio 2011). Il legislatore delegato preferì dare solo parziale attuazione alla delega, eliminando dal testo definitivo del provvedimento quello che doveva essere l’originario Libro I, rubricato nello schema di decreto “La criminalità organizzata di tipo mafioso”, ove avrebbe dovuto trovare sede l’intera disciplina che si trova sparsa tra codice penale, codice di procedura penale e legge di ordinamento penitenziario. Tanto è vero, che si è persino dibattuto se ci si trovi di fronte ad un vero e proprio “Codice”, come affermato dal legislatore, ovvero, in virtù delle numerose lacune presenti nell’articolato, di un più modesto testo unico. B. Romano, Il nuovo codice antimafia, in S. Furfaro (a cura di), Misure di prevenzione, Milano, 2013, 48.

[52] AA. VV. Commento al codice antimafia, San Marino, 2011; A. Balsamo-C. Maltese, Il codice antimafia, Milano, 2011; A. Cisterna, Il codice antimafia tra istanze compilative e modelli criminologici, in Dir. pen. proc., 2-2012, 213 ss.; F. Menditto, Codice antimafia, Napoli, 2011.

[53] Un utile contributo alla comprensione delle dinamiche che caratterizzano l’intervento mafioso in ambito economico ci è offerto dalla Relazione conclusiva della Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere, approvata al termine della XVII Legislatura, il 7 febbraio 2018, ove si sostiene come “le ragioni del “successo economico” dei mafiosi non risiedono in loro particolari abilità imprenditoriali e manageriali, ma vanno rintracciate nel fatto che possono contare sul sostegno, la cooperazione e le competenze di altri soggetti che intrattengono con i primi scambi reciprocamente vantaggiosi” (p. 21). Secondo la Commissione, peraltro, “le imprese mafiose sono le uniche che, pur partendo da un’accumulazione violenta o gestendo solo attività illegali (in gran parte legate alla domanda di soddisfacimento di vizi privati, in particolare gioco, droga, prostituzione, eccetera), arrivano sul mercato legale senza mai abbandonare quello illegale. È come dire che l’impresa mafiosa è “impresa di due mondi”, l’unica che coinvolge abitualmente e strutturalmente il mondo legale e quello illegale: è un’impresa economica dalla duplicità strutturale, e dimostra che i due mondi possono essere l’uno la continuazione dell’altro” (p. 25).

[54] G. Falcone-G. Turone, Tecniche di indagine in materia di mafia, in Cass. pen., 4-1983, 1038 ss.

[55] F. Mazzacuva, Le pene nascoste, Torino, 2017, 166.

[56] V. Manes, L’ultimo imperativo della politica criminale: nullum crimen sine confiscatione, in Riv. it. dir. proc. pen., 3-2015, 1260.

[57] C. E. Paliero, Il principio di effettività del diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1990, 430 ss.

[58] Sulla natura – sempre che sia possibile ormai ricondurre a unitarietà il complesso sistema delle confische – dell’istituto la letteratura è orma vastissima. Per un approfondimento, ci limitiamo a citare: D. Fondaroli, Le ipotesi speciali di confisca nel sistema penale: ablazione patrimoniale, criminalità economica, responsabilità delle persone fisiche e giuridiche, Bologna, 2007; A.M. Maugeri, Le moderne sanzioni patrimoniali tra funzionalità e garantismo, Milano, 2001; F. Menditto, Le confische di prevenzione e penali, Milano, 2015; E. Nicosia, La confisca, le confische: funzioni politico-criminali, natura giuridica e problemi ricostruttivo-applicativi, Torino, 2012. Per gli specifici problemi derivanti dal rapporto tra confisca e criminalità economica, si veda invece: R. Acquaroli, La ricchezza illecita tra tassazione e confisca, Roma, 2012, nonché L. Baron, Il ruolo della confisca nel contrasto alla c.d. criminalità del profitto: uno sguardo d’insieme, in questa Rivista, 1-2018, 38 ss.

[59] Abbiamo affrontato questo tema diffusamente in T. Guerini, Diritto penale ed enti collettivi, cit., passim e, in particolare, 157 ss. Riteniamo infatti che il rapporto tra sistema penale e persone giuridiche, da fondato dalla dicotomia tra ente lecito ed ente illecito, si sia arricchito di una terza tipologia, che abbiamo definito ente sospetto. Le misure di prevenzione applicabili agli enti collettivi sulla base delle leggi antimafia e della sempre più ricca disciplina di contrasto ai fenomeni corruttivi costituiscono il perno di questa categoria.

[60] Si veda sul punto la ricerca svolta dall’Università Bocconi e coordinata da Alberto Alessandri, raccolta oggi nel volume: A. Alessandri (a cura di), Espansione della criminalità organizzata nell’attività d’impresa al Nord, Torino, 2017.

[61] Istituita con D.M. 10 giugno 2013 dal Ministro della Giustizia.

[62] Il testo integrale è consultabile in: Proposte di intervento in materia di criminalità organizzata: la prima relazione della commissione Fiandaca, in questa Rivista, 12 febbraio 2014.

[63] Ovvero “di persone sottoposte a procedimento penale per taluno dei delitti di cui all'articolo 4, comma 1, lettere a), b) e i-bis), del presente decreto, ovvero per i delitti di cui agli articoli 603-bis, 629, 644, 648-bis e 648-ter del codice penale, e non ricorrono i presupposti per l'applicazione delle misure di prevenzione patrimoniali di cui al capo I del presente titolo, il tribunale competente per l'applicazione delle misure di prevenzione nei confronti delle persone sopraindicate dispone l'amministrazione giudiziaria delle aziende o dei beni utilizzabili, direttamente o indirettamente, per lo svolgimento delle predette attività economiche, su proposta dei soggetti di cui al comma 1 dell'articolo 17 del presente decreto”.

[64] Relazione della Commissione ministeriale incaricata di elaborare una proposta di interventi in materia di criminalità organizzata, in questa Rivista, 12 febbraio 2014, 87.

[65] Parla di “processo osmotico” F. Mongillo, La legge “spazzacorrotti”: ultimo approdo del diritto penale emergenziale nel cantiere permanente dell’anticorruzione, in questa Rivista, 5/2019, 247.

[66] Per un commento della quale si rimanda a: F. Sgubbi-T. Guerini, L’art. 32 del decreto legge 24 giugno 2014, n. 90, un primo commento, in questa Rivista; R. Cantone, B. Coccagna, La prevenzione della corruzione e delle infiltrazioni mafiose nei contratti pubblici: i commissariamenti per la costituzione di presidi di legalità nelle imprese, in I.A. Nicotra (a cura di), L’Autorità nazionale anticorruzione tra prevenzione e attività regolatoria, Torino, 2016, 69 e ss. V. Torano, Prime considerazioni sulle misure amministrative di gestione temporanea e straordinaria, sostegno e monitoraggio delle imprese nell’ambito del contrasto della corruzione e della criminalità organizzata, in www.giustamm.it, n. 2/2015; R. Mangani, Corruzione negli appalti, revoca dei contratti, commissariamento: brevi note anche a seguito dell’entrata in vigore del decreto legge 24 giugno 2014, n. 90, in www.giustamm.it., n. 7/2014, F. Di Cristina, La nuova vita dell’Anac e gli interventi in materia di appalti pubblici in funzione anti-corruzione, in Giornale di dir. amm. 2014, 1029 ss. Volendo, anche T. Guerini, Diritto penale ed enti collettivi. L’estensione della soggettività penale tra repressione, prevenzione e governo dell’economia, cit., 207 ss.

[67] Come si legge nella Relazione al Disegno di Legge n. 2486/2014, di conversione in legge del decreto in esame, l’art. 32 “introduce misure volte a far sì che in presenza di indagini per delitti di particolare gravità ai danni delle pubbliche amministrazioni, ovvero in presenza di situazioni anomale, sintomatiche di condotte illecite o di eventi criminali attribuibili ad imprese aggiudicatarie di un appalto per la realizzazione di opere pubbliche, servizi o forniture il presidente dell’ANAC sia dotato di incisivi poteri propositivi nei confronti del Prefetto”. Relazione al Disegno di Legge n. 2486/2014, 22. La relazione e tutti i documenti relativi ai lavori parlamentari sono integralmente reperibili sul sito: http://www.camera.it/leg17/126?tab=2&leg=17&idDocumento=2486&sede=&tipo.

[68] R. Cantone-B. Coccagna, La prevenzione della corruzione e delle infiltrazioni mafiose nei contratti pubblici: i commissariamenti per la costituzione di presidi di legalità nelle imprese, cit., 83.

[69] R. Cantone-B. Coccagna, ivi.

[70] Si vedano sul punto le Seconde linee guida per l'applicazione delle Misure straordinarie di Gestione, sostegno e monitoraggio di imprese nell'ambito della prevenzione anticorruzione e antimafia, 8, disponibili sul portale dell’Autorità nazionale anticorruzione all’indirizzo: https://www.anticorruzione.it/portal/rest/jcr/repository/collaboration/Digital%20Assets/anacdocs/Attivita/Atti/MisureStraordinarieArt32/LineeGuide/SecondeLineeGuida.art.32.pdf

[71] Si tratta di una impostazione che è stata seguita dall’ANAC e dalla Prefettura di Modena nell’ambito della procedura di commissariamento della CPL Concordia Soc. Coop., oggetto nel corso del 2015 di una interdittiva antimafia emessa dal Prefetto a seguito del coinvolgimento di alcuni esponenti aziendali in una inchiesta per fatti di criminalità organizzata nel casertano. In quel caso, il commissariamento garantì la prosecuzione di oltre 1300 contratti pubblici e tale misura fu seguita da quella del monitoraggio, svolta peraltro dagli stessi commissari i quali, a seguito dell’aggiornamento dell’informativa antimafia con conseguente reinserimento della Cooperativa nella White list della Regione Emilia-Romagna, assunsero il ruolo di esperti per il monitoraggio e il sostegno ai sensi del comma 8 dell’art. 32 del d.l. 90/2014. Sul punto, si veda la Relazione annuale 2015 Anac, 269-270. Il documento è disponibile all’indirizzo: https://www.anticorruzione.it/portal/rest/jcr/repository/collaboration/Digital%20Assets/anacdocs/Attivita/Pubblicazioni/RelazioniAnnuali/2016/ANAC.relazione2015.14.07.16.pdf.

[72] Lo hanno sostenuto R. Cantone-B. Coccagna, La prevenzione della corruzione e delle infiltrazioni mafiose nei contratti pubblici: i commissariamenti per la costituzione di presidi di legalità nelle imprese, cit., 86, rilevando come tale facoltà sembrerebbe essere già ammessa dallo stesso art. 32, il cui comma 3 prevede che nella fase della straordinaria e temporanea gestione dell’impresa sono attribuiti agli amministratori i poteri e le funzioni degli organi di amministrazione dell’impresa, con conseguente sospensione dell’esercizio dei poteri di disposizione e gestione dei titolari dell’impresa.

[73] Come noto, secondo il pensiero di Bricola, “il principio, costituzionale o meno nulla poena sine culpa porta a scartare l’utilizzabilità della sanzione penale stricto sensu nei confronti delle società”, viceversa, sarebbe stato legittimo, anche prima dell’introduzione del d.lgs. 231/01, applicare ad esse alcune misure di sicurezza, rispetto alle quali il principio di colpevolezza opera nel suo portato minimo, come divieto di responsabilità per fatto altrui. F. Bricola, Il costo del principio societas delinquere non potest nell’attuale dimensione del fenomeno societario, cit., 3040.

[74] Si veda sul punto una recente sentenza del Consiglio di Stato, che ha ribadito come sia estranea al sistema delle interdittive antimafia “qualsiasi logica penalistica di certezza probatoria raggiunta al di là del ragionevole dubbio, poiché simile logica vanificherebbe la finalità anticipatoria dell'informativa, che è quella di prevenire un grave pericolo e non già quella di punire, nemmeno in modo indiretto, una condotta penalmente rilevante” Cons. Stato, Sez. III, Sent., 2 agosto 2016, n. 3505. In senso conforme: Cons. Stato, Sez. III, 3 maggio 2016, n.1743; Cons. Stato, Sez. III, 7 luglio 2016, n. 3009.