Il problema della criminalizzazione delle vittime di tratta: la Corte europea dei diritti dell’uomo su "non-punishment clause" e obblighi positivi di tutela discendenti dall’art. 4 Cedu
Corte eur. dir. uomo, IV Sez., 16 febbraio 2021, V.C.L. e A.N. c. UK
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Con la sentenza V.C.L. e A.N. c. UK, emessa lo scorso 16 febbraio 2021, la Corte di Strasburgo ha per la prima volta riconosciuto che la sottoposizione a procedimento penale di (potenziali) vittime di tratta di esseri umani per reati connessi alla loro condizione di sfruttamento può determinare la violazione dell’Art. 4 Cedu da parte dello Stato procedente. La pronuncia fornisce ai giudici europei l’occasione di precisare ulteriormente il contenuto degli obblighi positivi di tutela discendenti dall’Art. 4 Cedu, oltre che di chiarire l’ambito di rilevanza rispetto alla Convenzione della c.d. non-punishment clause contenuta nella normativa internazionale ed europea di contrasto al traffico di esseri umani.
Come noto, a partire dalla sentenza Rantsev c. Cipro del 7 gennaio 2010 la giurisprudenza della Corte edu ha apertamente ricondotto il divieto di tratta di esseri umani all’ambito applicativo dell’Art. 4 Cedu, il quale testualmente vieta la schiavitù, la servitù e il lavoro forzato. L’effetto di tale interpretazione evolutiva è stato quello di arricchire e rafforzare l’apparato di obblighi di carattere positivo già discendenti dal complesso degli strumenti internazionali ed europei di contrasto al fenomeno del traffico di esseri umani: il Protocollo di Palermo sulla tratta di esseri umani del 2000 (addizionale alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale), la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla lotta contro la tratta di esseri umani del 2005 e la direttiva 2011/36/UE; il risultato dell’interazione di queste diverse fonti è un sistema articolato, incentrato tanto su precisi obblighi di criminalizzazione, prevenzione e repressione del fenomeno criminale in oggetto, quanto su altrettanto rilevanti e dettagliati obblighi di tutela, assistenza e protezione delle vittime, oggi pienamente assimilati all’interno delle garanzie convenzionali per il tramite dell’Art. 4 Cedu.
In quest’occasione, la Corte europea era chiamata a decidere dei ricorsi proposti da due soggetti di origine vietnamita che, ancora minorenni, erano stati condotti in Inghilterra per essere impiegati da alcuni propri connazionali nella coltivazione di cannabis e successivamente erano stati arrestati, processati e condannati dalle autorità inglesi per produzione e spaccio di sostanze stupefacenti. In entrambi i casi, nonostante le competenti autorità governative avessero attribuito ai due minori la qualifica di vittime di tratta di esseri umani, le autorità procedenti avevano disatteso tali conclusioni, limitandosi a invocare la gravità dei reati loro addebitati e l’assenza di prove evidenti circa il fatto che gli imputati fossero stati oggetto di tratta. Per questo motivo, i due ricorrenti lamentavano la violazione dell’Art. 4 Cedu, asserendo che lo Stato inglese non aveva adempiuto ai suoi obblighi di identificarli prontamente come vittime di traffico di esseri umani e fornire loro adeguata tutela, nonostante al tempo dei fatti fossero minori in condizione di vulnerabilità.
Nel valutare il caso di specie, i giudici di Strasburgo si confrontano con le previsioni di cui agli artt. 26 della Convenzione di Varsavia e 8 della direttiva 2011/36/UE, i quali – proprio al fine di assicurare una tutela reale ed effettiva alle vittime di tratta – raccomandano l’adozione da parte degli Stati di apposite clausole di non punibilità idonee a impedire che queste possano subire condanne penali per reati commessi quale diretta conseguenza della propria condizione di sfruttamento (c.d. non-punishment clause). La Corte chiarisce subito che tali norme non pongono, in realtà, un assoluto e incondizionato divieto per gli Stati di sottoporre a procedimento penale un soggetto identificato come vittima di tratta: esse si limitano infatti a prevedere che gli Stati considerino la possibilità di non perseguire i soggetti che siano stati costretti a commettere reati in conseguenza alla propria condizione (cfr. § 158 della sentenza in commento).
Ciò nondimeno, la Corte denota come, in alcuni casi, perseguire penalmente le vittime reali o potenziali del traffico di esseri umani possa in concreto porsi in contrasto con gli obblighi dello Stato di adottare misure operative adeguate a proteggerle, obblighi che sorgono ogniqualvolta emergano elementi idonei a fondare anche solo un ragionevole sospetto che un soggetto sia stato trafficato; la sottoposizione a procedimento penale, infatti, è suscettibile di minare il recupero fisico, psicologico e sociale della vittima, favorendo effetti di vittimizzazione secondaria e peggiorando la loro condizione di vulnerabilità (§ 159).
Non può del resto trascurarsi come lo sfruttamento di esseri umani in attività illecite sia un fenomeno in significativa crescita nel contesto globale ed europeo, da ultimo espressamente contemplato come possibile purpose della condotta di tratta nell’ambito dell’Art. 2§3 della direttiva 2011/36/UE. Le autorità giudiziarie inglesi, allora, avrebbero dovuto procedere all’identificazione dei ricorrenti come potenziali vittime di tratta fin dal momento del loro ritrovamento presso la coltivazione di cannabis, emergendo fin da subito chiari indici di tale loro condizione. Conseguentemente, ogni successiva decisione in ordine all’avvio e alla prosecuzione di un procedimento penale nei loro confronti avrebbe dovuto tenere in considerazione il loro status di vittime o, in caso contrario, fornire delle adeguate motivazioni per giustificare un diniego di tale qualifica. Poiché ciò nel caso di specie non era avvenuto, i giudici di Strasburgo riconoscono la violazione da parte del Regno Unito degli obblighi positivi di tutela discendenti dall’Art. 4 Cedu.
La Corte, inoltre, accerta una violazione anche delle garanzie procedurali di cui all’Art. 6 Cedu, poiché la mancata identificazione dei minori come vittime di tratta nel corso del procedimento penale aveva arrecato un vulnus al loro diritto a un processo equo, traducendosi in un’adeguatezza delle indagini; benché gli imputati fossero stati assistiti da dei difensori, peraltro, questi li avevano indotti a dichiararsi colpevoli dei fatti addebitati, in un contesto nel quale gli stessi erano incapaci di riconoscere e far valere i propri diritti.