Legalità costituzionale, legalità convenzionale e diritto giurisprudenziale
L’apertura della legalità penale al diritto giurisprudenziale operata dall’art. 7 CEDU apre preoccupanti interrogativi circa la tenuta della legalità penale costituzionale di molti Paesi europei di civil law storicamente incentrata sul principio di riserva di legge parlamentare. Questo disallineamento non può, però, comportare una trasfigurazione del nullum crimen sine lege nel nullum crimen sine iure in tali ordinamenti e, quindi, imporre loro una equiparazione tra formante legislativo e giurisprudenziale in materia penale. Molto più semplicemente consente di implementare le garanzie per i consociati quando – ragionando diversamente e non riconoscendo valore-fonte alla giurisprudenza – si rischierebbe di frustrare i principi di irretroattività e di retroattività della lex mitior. Ciò significa che il judicial law continua a non essere assimilabile allo statutory law nei prevalenti casi di fisiologico contrasto interpretativo sincronico e diacronico, ma solo in quelli ‘limite’ dell’overruling in malam partem oggettivamente ed assolutamente imprevedibile e dell’overruling in bonam partem effettuato dalle Sezioni unite
1. La legalità costituzionale e la riserva di legge*
Com’è noto, nella tradizione costituzionale degli Stati europei di civil law il principio di legalità dei reati e delle pene, icasticamente sintetizzato nel brocardo latino nullum crimen, nulla poena sine lege, rappresenta l’architrave su cui si regge e si sviluppa l’intero diritto penale.
Nonostante siano state individuate nel tempo una pluralità di articolazioni in cui deve essere suddiviso, la sua pietra angolare – sin dalla sua primigenia formulazione ai tempi dell’Illuminismo giuridico e del magistrale insegnamento di Cesare Beccaria – è ravvisata nel principio della riserva di legge. Si è sempre reputato che solo tramite l’attribuzione del monopolio delle scelte politico-criminali all’unico organo costituzionale democraticamente eletto e rappresentativo di tutte le forze politiche, il Parlamento, si potessero preservare i consociati da possibili torsioni arbitrarie o liberticide della potestà punitiva statale, vale a dire di quella forma del potere pubblico che intercetta, inevitabilmente, un bene indisponibile come la libertà personale dei singoli[1].
Nei moderni Stati costituzionali di diritto la legalità c.d. ‘legicentrica’[2], imperniata cioè sulla lex scripta parlamentaria – o su atti ad essa equiparati –, è così assurta a nucleo centrale ed indefettibile di ogni discorso in materia penale per molteplici ma complementari ragioni, talune politico-istituzionali e tal’altre individual-garantistiche.
Sotto il primo versante, la riserva di legge ha rappresentato la proiezione ‘fisiologica’ del principio della separazione dei poteri di matrice illuministica, essendo strumentale ad escludere possibili abusi da parte tanto del potere esecutivo, quanto del potere giudiziario[3]. Tramite tale principio, infatti, il Governo viene privato di potestà legislativa in ambito criminale ed il giudice penale viene degradato dal rango di creatore di diritto a quello subalterno di soggetto sottoposto alla legge con compiti di mero custode ed esecutore della ‘volontà generale’ compendiata nel comando legale definito dal popolo sovrano[4].
Sotto il secondo profilo, quello della tutela dei diritti individuali fondamentali, la legalità legislativa incentrata sulla lex parlamentaria è stata considerata il mezzo per assicurare la ‘eteronomia’ delle opzioni politico-criminali che incidono sulla libertà personale, contribuendo a individuare ab externo i reati e le pene, nonché a preservare la democraticità di queste stesse decisioni, permettendo così che ogni scelta che abbia a che fare con la libertà personale sia sempre adottata nel circuito dialettico delle assemblee parlamentari in cui si confrontano tutte le forze politiche.
Essa, inoltre, è servita a garantire anche un altro dato imprescindibile nell’ottica di un diritto penale moderno di impronta liberale: l’immediata ed agevole conoscibilità da parte del cittadino dei fatti penalmente rilevanti e l’entità e la tipologia delle relative sanzioni, rendendoli più facilmente accessibili rispetto alle altre fonti[5].
Infine, in tempi più recenti, si è rivelata piattaforma primaria ed irrinunciabile per una concezione della pena teleologicamente orientata alla rieducazione del reo, quale quella condivisa dall’art. 27, comma 3 Cost.: solo una sanzione criminale predeterminata dalla legge per un fatto da questa chiaramente preveduto come reato può tendere alla risocializzazione del reo.
Così concepita la legalità penale, quale principio di carattere formale concernente il momento genetico delle norme incriminatrici generali ed astratte, è progressivamente e stabilmente assurta al rango di vera e propria mitologia giuridica della modernità[6], costituendo un volano straordinario per la fuoriuscita del diritto penale dalle ombre cupe dell’età pre-moderna in cui imperava lo splendore dei supplizi e l’arbitrium principis e per il suo successivo transito verso la contemporanea dimensione di Magna Charta Libertatum del reo.
2. La relativizzazione del valore garantista del principio di riserva di legge
Tuttavia, la legalità legicentrica, dopo essere stata idealizzata per un lunghissimo periodo nonostante l’antico monito di Antigone, è stata recentemente messa in discussione da alcuni acuti storici del diritto, che ne hanno svelato profili sovente trascurati e, dunque, relativizzato la portata di garanzia assoluta per i consociati[7].
È stato così rivelato il suo sottostimato valore conservatore e, soprattutto, il suo rischioso volto relativo.
La riserva di legge, infatti, soprattutto quando è stata esaltata – come avveniva in passato – nella sua dimensione politico-istituzionale, si è dimostrata un formidabile instrumentum regni[8] nelle mani dei detentori del potere legislativo, nonché un principio non sempre oggettivamente garantista.
Nel XX Secolo, durante l’imperio del positivismo giuridico acritico, la legalità ha esibito un volto inatteso, venendo ridotta a mero simulacro svuotato delle sue prerogative[9]: nelle dittature totalitarie di quel frangente storico, in cui – tramite la legge – sono state realizzate o giustificate anche sul versante penale condotte lesive di diritti fondamentali dell’uomo, è stato bloccato “il moto pendolare” del suo costante movimento tra favor societatis e favor libertatis “sul polo dell’autorità, anziché su quello della garanzia”[10].
La ‘cattiva’ legislazione penale del ventennio italiano (il discorso per la Germania è differente, in ragione di un esplicito e totale commiato dalla legalità formale ivi realizzatosi con il nazismo con l’introduzione del Fhürerprinzip nel § 2 BGStB[11]), confutando definitivamente l’utopia del legislatore saggio e incorruttibile, distante dai fatti e dai particolarismi ed attento a esprimere la volontà generale sempre buona e giusta, ha consegnato alla storia successiva l’immagine di un diritto che, secondo il c.d. ‘volontarismo giuridico’, dipendeva esclusivamente dalle intenzioni di chi deteneva il potere politico, rappresentando uno strumento di autorità che poteva prescindere dalla giustizia e dalla legittimità dei suoi contenuti che si auto-legittimavano con l’autorità del soggetto da cui promanavano, secondo il brocardo auctoritas facit legem.
In tempi ancora più recenti, non in Italia ma in un Paese giuridicamente a noi molto vicino per tradizione come la Germania, si è avuta un’altra dimostrazione della potenziale capacità antidemocratica della legalità con la Grenzgesetz vigente nella ex DDR sino alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso che autorizzava le uccisioni o i ferimenti delle persone che provavano a oltrepassare il Muro di Berlino da parte delle guardie di frontiera.
Sembra allora incontestabile l’osservazione di Calamandrei, richiamata da Palazzo in un recente scritto[12], secondo cui la legalità piegata dai totalitarismi contemporanei ha dimostrato di non essere un dato incondizionatamente positivo ‘in sé’, potendo subire torsioni liberticide antitetiche al suo stesso spirito garantista, in quanto “nello stampo della legalità si può colare oro o piombo”, come hanno dimostrato, rispettivamente, la legalità costituzionale e la legalità fascista.
Ciò significa, che, re melius perpensa, la legalità penale non deve essere concepita come valore da tutelare in quanto tale, ma solo nella sua prospettiva di scopo, vale a dire alla luce della sua ratio garantista di evitare arbitri esecutivi e giudiziari e rispondere ad istanze di favor libertatis.
In linea teorica, dunque, sue curvature o flessibilizzazioni possono anche essere ammesse, purché condividano la sua stessa tensione teleologica e consentano, quindi, di approdare ad esiti più garantisti; mai invece in casi contrari.
E questo, lo si anticipa sin d’ora, è l’assunto metodologico con cui si proverà a risolvere il problema della interazione tra la legalità nazionale ed europea sul fronte specifico del riconoscimento del diritto giurisprudenziale quale fonte del diritto penale.
3. La legalità convenzionale ed il commiato dalla riserva di legge
Ed infatti, in tempi più recenti, il principio di legalità è divenuto un cardine portante della materia penale anche nella Carta EDU in cui è espressamente enunciato nell’art. 7 CEDU, oltre che in altre fonti sovranazionali come la Carta di Nizza.
Tuttavia, nella dimensione convenzionale il principio ha assunto contenuti leggermente diversi rispetto a quelli che storicamente ha mostrato nella analoga versione costituzionale, presentando molteplici elementi differenziali significativi che, nella maggior parte delle occasioni, hanno contribuito a determinare un innalzamento delle garanzie penali negli ordinamenti giuridici degli Stati membri.
La legalità convenzionale, così come co-definita dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo che con le sue pronunce contribuisce a delineare il significato delle disposizioni della CEDU, presenta, infatti, un quid pluris rispetto alla legalità costituzionale, arricchendosi di venature inesistenti sul terreno nazionale e, quindi, producendo un effetto tendenzialmente espansivo delle garanzie dei singoli sotto tanti versanti.
In particolare, essa riguarda non solo i fatti formalmente qualificati come reato e le relative pene, ma anche quelli che assumono natura penale solo nella sostanza alla stregua dei c.d. Engel criteria elaborati dalla Corte EDU. Inoltre, comprende il principio della retroattività della lex mitior secondo il dictum della sentenza Scoppola c. Italia della Corte EDU del 2009, che, invece, nel diritto interno viene collocato all’interno del più generalista principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost.; nonché il principio della prevedibilità delle decisioni giudiziarie che, a sua volta, presuppone quelli della accessibilità dei comandi legali e della prevedibilità delle conseguenze sanzionatorie penali che nel nostro sistema penale costituzionale trovano dimora nel principio di colpevolezza e, quindi, non sul versante della legge penale generale ed astratta, bensì su quello concreto e particolare del rimprovero nei confronti del singolo reo.
Tuttavia, la stessa legalità convenzionale si differenzia da quella nazionale anche per un quid minoris, dal momento che non contempla al suo interno quell’elemento che, invece, come si è visto, costituisce la piattaforma dell’omologo principio enunciato nelle Costituzioni di molti Stati membri: la riserva di legge.
La CEDU e la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, difatti, hanno statuito la piena assimilazione del diritto parlamentare al diritto giurisprudenziale dal momento che l’art. 7 CEDU non enuncia il principio di legalità facendo leva sul lemma ‘legge’, bensì su quello decisamente più ampio ed elastico di droit, potenzialmente comprensivo anche del diritto giurisprudenziale. Ciò che conta nell’ottica europea non è tanto la fonte formale dei reati e delle pene e l’organo tenuto ad approvarli, ma un aspetto sostanziale: che il comando recante disposizioni penali sia accessibile e la sanzione ad esso correlata sia preventivabile. Il dato cruciale non è, dunque, il tipo di contenitore che reca il comando penale, ma la qualità di quel comando.
Nella legalità convenzionale, statuendosi che nessuno può essere punito se non in forza del ‘diritto’ previgente alla commissione di un fatto, la pietra angolare della legalità interna viene dunque ignorata, a tutto vantaggio delle altre proiezioni della legalità e, su tutte, quelle della accessibilità delle fattispecie e della prevedibilità delle sanzioni.
4. Le ragioni della differenza
Le ragioni di tale differenza sono molteplici e devono essere ravvisate nel carattere fortemente diverso che assume il principio di legalità a livello europeo e a livello nazionale per ragioni politico-istituzionali e funzional-teleologiche.
La legalità europea, infatti, è duttile e prescinde dalla legge parlamentare riferendosi genericamente al droit in quanto concepita per adattarsi e valere indistintamente in tutti gli ordinamenti giuridici degli Stati membri della grande Europa, sia quelli di civil law che quelli di common law[13].
È effettuale perché pensata in chiave funzionale rispetto alla tutela dei diritti individuali dei singoli, per garantire, cioè, l’accessibilità della base legale dei fatti penalmente rilevanti e la prevedibilità delle relative sanzioni: essa, infatti, si disinteressa del piano formale, generale ed astratto delle fonti dei reati e delle pene, focalizzandosi sulla tutela della libertà personale individuale rispetto a tutti i provvedimenti che possano comprimerla, siano essi, indifferentemente, legislativi o giurisprudenziali. Com’è stato ben rilevato, “nel sistema della Convenzione europea dei diritti dell’uomo non ha rilievo la prospettiva ‘genetica’ delle norme astratte, cioè non conta come le norme nell’ordinamento siano (debbano essere) approvate, né conseguentemente interessano primariamente le questioni di legittimazione della fonte dal punto di vista dell’ordinamento interno. Ciò che conta è che l’atto normativo produca un effetto sul diritto previsto dalla Convenzione: la legalità convenzionale è parametro di controllo sugli effetti prodotti dalla scelta nazionale sui diritti tutelati dalla stessa Convenzione. (…) Sono gli effetti di pregiudizio che contano, e precisamente per questo la Corte non si può accontentare di considerare le forme, ma deve sindacare la sostanza dell’attività ordinamentale”[14].
È sostanziale poiché, proprio perché legata al piano particolaristico e individuale dei diritti soggettivi del singolo in una vicenda concreta, anche in presenza di una fonte legislativa non si arresta davanti al dato nominalistico in essa espresso, ma scende in profondità indagando quello concreto e valutando se le misure eventualmente applicate nei confronti di un cittadino di uno degli Stati membri siano effettivamente penali in ragione della loro afflittività e finalità.
È a-statuale in quanto, nascendo dal basso, dai diritti soggettivi individuali, e non dall’alto, dal piano politico-istituzionale di uno Stato, non può riguardare le fonti, perché la CEDU non attribuisce all’Europa alcuna potestà normativa, ma semplicemente si limita a giudicare casi concreti in cui un diritto fondamentale da essa riconosciuto, quale la libertà personale, sia stato compresso da una disposizione interna di uno Stato membro; ciò implica anche la conseguenza non indifferente che una condanna della Corte EDU non incide in alcun modo sulla legittimità della norma nazionale da cui è scaturita, che potrà in futuro essere applicata nuovamente dando vita ad altre eventuali condanne. Com’è stato rilevato, “la legalità europea della CEDU è del tutto insensibile al riparto del potere normativo penale tra diversi organi costituzionali (cui provvede invece la nostrana riserva di legge): ed invero è facile comprendere che sia così, attenendo l’organizzazione del potere all’architettura costituzionale dei singoli Stati. La legalità europea esalta invece, quale sua componente essenziale, il fondamentale diritto all’autodeterminazione dell’individuo”[15]. Senza trascurare il fatto che opera in un contesto dove la produzione del diritto anche primario dei Trattati non è mai affidata ad organi democratici neanche in materia penale, in ragione del ruolo secondario del Parlamento europeo e, dunque, le istanze di tale tipo sono poco avvertite.
È vigilata dalla Corte EDU, vale a dire da un giudice che non verifica la legittimità delle fonti recanti, a livello generale ed astratto, i reati e le pene, bensì la violazione di singoli diritti fondamentali.
Da ciò discende che il contenuto chiave del nullum crimen, nulla poena sine lege ex art. 7 CEDU è il diritto del singolo alla prevedibilità della condanna e dell’inflizione della pena sulla base di dati normativi certi, chiari ed accessibili; diritto che, come è stato chiarito dalla Corte EDU nel caso Del Rio Prada, concerne anche l’esecuzione concreta della pena[16].
Al contrario, la legalità penale nazionale è rigida, in quanto ancorata alla nostra forma di Stato nazionale e alla tripartizione dei poteri interni, perseguendo sul piano politico-istituzionale la imprescindibile funzione di riservare il monopolio legislativo in materia penale al solo organo costituzionale democraticamente eletto, il Parlamento, e di marginalizzare il contributo creativo del potere esecutivo e di quello giudiziario. In questa ottica si suole dire che “il principio di riserva di legge nazionale, quale norma sulla fonte, ha la funzione di definire il soggetto che per l’ordinamento interno è deputato istituzionalmente ad operare la selezione primaria fra lecito ed illecito; ad effettuare, dunque, scelte di criminalizzazione e definizione dei criteri di imputazione penale”[17].
È genetica poiché si interessa del piano generale ed astratto nelle norme incriminatrici, esigendo che siano prodotte dal solo Parlamento attraverso un attento vaglio dialettico ed effettivamente democratico, concentrando cioè lo sguardo sul rapporto tra poteri e valorizzando “soprattutto la relazione tra legislatore e giudice, tra fonte astratta e interpretazione”[18].
È formale dal momento che, muovendo da questo diverso angolo prospettico, è strettamente ed inevitabilmente connessa alle fonti di produzione del diritto penale, individuando nella sola legge statuale parlamentare un valido baluardo garantista per i consociati avverso possibili usi liberticidi del diritto penale.
È vigilata dalla Corte costituzionale che giudica la legittimità delle leggi ordinarie espungendole dall’ordinamento con efficacia ex tunc ed erga omnes e, quindi, eliminando in radice la possibilità che possano produrre ulteriori effetti giuridici in altre future situazioni analoghe.
Dal confronto, risulta che nella legalità europea l’idea del rafforzamento dei diritti fondamentali finisce con il prevalere sull’esigenza avvertita in quella nazionale di controllo democratico parlamentare, favorendo un pieno riconoscimento anche della giurisprudenza quale fonte del diritto penale[19].
Davanti ad un simile scenario la scienza del diritto penale si è sentita disorientata, trovandosi al cospetto di una dicotomia apparentemente insanabile tra una legalità costituzionale caratterizzata dalla riserva di legge e dal principio democratico e una legalità convenzionale che da questi prescinde.
5. Il diritto giurisprudenziale è diventato fonte del diritto penale?
Il dubbio che si è posto è se la legalità nazionale si sia definitivamente disgregata e dalla ‘legolatria’ illuminista si sia passati alla post-legalità[20], in cui il diritto penale è governato indifferentemente tanto dal diritto legale, quanto dal diritto giurisprudenziale[21] ed il nullum crimen sine lege sia stato soppiantato dal nullum crimen sine iure.
La risposta è sicuramente negativa.
Lo sganciamento della legalità convenzionale dal principio di riserva di legge da parte non può significare per gli ordinamenti degli Stati membri che, invece, si incentrano su tale principio un passo indietro, una riduzione degli standard di tutela previsti in criminalibus per i consociati.
L’apertura europea del diritto penale al diritto giurisprudenziale, come si proverà ad argomentare, può incidere sulla tradizionale legalità penale legicentrica solo a determinate e peculiarissime condizioni, vale a dire quando possa produrre un miglioramento dei livelli delle tutele riconosciute negli Stati membri ancorati alla riserva di legge.
Come, cioè, sono crollate le resistenza manifestate nei confronti della concezione sostanziale della matière pénale propugnata da Strasburgo, contrastante con il dato nominalistico delle leggi nazionali, così debbono essere messe da parte posizioni aprioristiche di netta chiusura della materia penale alla judge made law, partendo dal punto di vista di fondo che la CEDU integra solo in melius il nostro e gli altri ordinamenti degli Stati aderenti, non certamente in peius, per cui, se a livello locale esistono principi e regole che rispondono a standard più elevati, nulla quaestio sulla loro prevalenza.
Ed allora, nonostante l’art. 7 CEDU prescinda dalla legge per la definizione dei reati e delle pene, accontentandosi di qualsiasi comando accessibile e chiaro di provenienza parlamentare o giurisprudenziale, quest’ultimo non può essere considerato tout court fonte del diritto penale, in quanto il nostro art. 25, co. 2 Cost. non lo consente, riservando, come si è detto, il monopolio delle scelte politico-criminali alla legge in senso stretto.
Tuttavia, il diritto giurisprudenziale può essere equiparato al formante legale quando ragionando diversamente si rischierebbe, paradossalmente, di ridurre il novero delle garanzie per i consociati, come nei casi di mutamento giurisprudenziale favorevole a cui non sarebbe estesa la regola della retroattività della lex mitior e di mutamento giurisprudenziale sfavorevole a cui non sarebbe estesa la regola opposta dell’irretroattività della legge penale.
La nuova legalità europea, proprio in ragione della diversità funzionale appena descritta, non va allora concepita come alternativa alla nazionale; non si impone su di essa travalicandola e snaturandone la fisionomia al punto da determinare il superamento del principio di riserva di legge. Semplicemente vi si affianca in chiave di reciproca complementarietà teleologica, contribuendo ad implementarne la funzione garantista in tutti quegli ambiti in cui questa non vi riesca da sola in ragione della sua natura legicentrica e formale.
Le forzature della legalità costituzionale derivanti dal diritto sovranazionale possono essere, quindi, accettate unicamente se affondano le basi nella medesima ratio sottesa alla stessa legalità in un moderno Stato costituzionale di diritto, il favor libertatis; laddove, cioè, si rivelino strumentali alla sua più piena attuazione rispetto a quanto non consentirebbe il formale ossequio della riserva di legge. Ed è per questa ragione che si ritiene condivisibile l’atteggiamento di chiusura mostrato dalla Corte costituzionale nella vicenda Taricco, poiché, brandendo l’arma dei controlimiti pur senza attivarla, impedisce che un’altra legalità ancora, quella europea veicolata dalla CGUE, si possa imporre nel diritto interno producendo effetti in malam partem su quella costituzionale.
Come osservato da Viganò, “la Corte EDU non pretende di costringere gli ordinamenti degli Stati parte ad accettare l’idea secondo cui il reato possa essere di creazione puramente giurisprudenziale, né che possa essere la giurisprudenza a stabilire che cosa sia reato e che cosa non lo sia. La logica del diritto internazionale dei diritti umani è sempre quella della massimizzazione delle tutele: come recita a chiare lettere l’art. 53 CEDU “nessuna delle disposizioni della presente Convenzione può essere interpretata in modo da limitare o pregiudicare i diritti dell’uomo e le libertà fondamentali che possano essere riconosciute in base alle leggi di ogni Parte contraente o in base a ogni altro accordo al quale essa partecipi”. Se, dunque, l’ordinamento italiano prevede che soltanto la lex parlamentaria – o atti aventi forza equiparata – siano legittimati a porre in essere norme penali, questa garanzia resta impregiudicata dall’art. 7 CEDU, che semplicemente si aggiunge alle garanzie costituzionali”[22].
Nella medesima direzione si è mossa di recente anche la Corte costituzionale quando, nell’ordinanza 24/2017 relativa sempre alla vicenda Taricco, ha ribadito che le intersezioni tra i due livelli ordinamentali, nazionale ed europeo, sono intersezioni tese a produrre una somma di diritti, non una loro sottrazione[23].
La riserva tendenzialmente assoluta di legge parlamentare di cui all’art. 25, co. 2, Cost. – consentendo di sottoporre tutti gli interventi in ambito penale e, quindi, tutte le scelte politiche che incidono sulla libertà personale, ad un controllo dialettico e democratico all’interno del Parlamento – costituisce, allora, – anche in ragione del collegamento che ha con il principio democratico di cui all’art. 1 Cost. – un principio identitario indeformabile della nostra Costituzione che non può essere negato neanche dal diritto convenzionale, non esistendo alcun equivalente funzionale in termini di garanzie[24] e, soprattutto, ostando a ciò lo stesso già citato art. 53 CEDU, nonché, gli artt. 4.2 e 6.3 TUE e 67.1 TFUE.
Non sembra, cioè, revocato in dubbio che tra i diritti fondamentali da rispettare anche da parte della giurisprudenza che interpreta la CEDU vi sia tuttora in Italia quello che conferisce il monopolio delle scelte di incriminazione alla legge e non al giudice, sicchè è impossibile concludere che in seguito alla interpolazione della legalità nazionale con quella europea sia stata legittimata la teoria della giurisprudenza-fonte[25].
Una equiparazione della judicial law alla statutory law può essere ammessa solo in casi residuali, quando, cioè, consenta di aumentare gli standard di tutela dei diritti fondamentali rispetto a sanzioni dal contenuto autenticamente afflittivo, come quando si tratti di estendere al diritto giurisprudenziale penale i corollari della legalità della irretroattività o della retroattività più favorevole.
A ragionare diversamente, e a restare legati all’idea che solo il Parlamento possa garantire la tutela della libertà personale, si rischia di registrare l’effetto opposto e di ridurre la componente individual-garantista su cui poggia il principio di legalità penale e di frustrare le istanze di favor libertatis[26].
6. La temperata apertura al diritto giurisprudenziale in materia penale
Ma quando e a quali condizioni il formante giurisprudenziale può ragionevolmente essere equiparato al formante legislativo beneficiando delle stesse garanzie?
Per comprenderlo bisogna partire dal presupposto che il diritto giurisprudenziale si può manifestare nella prassi con tre sembianze sensibilmente diverse: 1) mutamento interpretativo fisiologico in bonam o malam partem; 2) overruling sfavorevole oggettivamente imprevedibile; 3) overruling favorevole operato dalle Sezioni unite.
Muovendo da tale assunto, ben si capisce come il primo tipo di diritto vivente – diversamente da quanto sostenuto da altra parte della dottrina[27] – non possa essere parificato al diritto legislativo e godere delle tutele accordate dalla legalità europea, in quanto non incide sulla prevedibilità delle decisioni giudiziarie e sull’uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge, né genera dubbi circa la compressione dei principi di irretroattività nel caso in cui sia sfavorevole o di retroattività in quello opposto.
Nei casi di ordinario contrasto diacronico giurisprudenziale sull’interpretazione più o meno estesa di una fattispecie incriminatrice ci si trova al cospetto, anzi, di momenti ineliminabili di dialettica discorsiva. Momenti che consentono di introdurre nel frangente dinamico-applicativo del diritto in action di matrice giurisprudenziale gli stilemi tipici di quel modello virtuoso di democrazia deliberativa caro ad Habermas, garantendo così un continuo controllo critico delle decisioni politiche ed impedendo, altresì, una direzione rigida delle statuizioni dell’autorità. Questo processo di contaminazione ‘democratica’ è, invero, particolarmente utile proprio poiché l’attività giurisdizionale in ambito penale, nei termini in cui la si è sinora considerata, è anch’essa sostanzialmente ‘attività politica’, concorrendo, al pari di quella legislativa, a ‘creare diritto’ tramite la codefinizione della sostanza dell’incriminazione e a incidere, quindi, sulla libertà personale degli individui[28].
Peraltro, riconoscere un minimo di ‘gioco’ al potere interpretativo dei giudici, ammettendo la possibilità di vedere convivere nell’ordinamento esegesi contrastanti di stesse norme incriminatrici, consente di evitare un effetto collaterale non secondario di un diritto marcatamente legicentrico: la sclerotizzazione degli orientamenti giurisprudenziali anche, eventualmente, non corretti[29].
Ciò significa che è allora pacificamente ammessa, senza porre problemi di contrasto con il principio di irretroattività o di retroattività della lex mitior, l’evoluzione interpretativa di una fattispecie incriminatrice recante elementi costitutivi dal duplice, ma plausibile e prevedibile, significato.
Si pensi, a titolo esemplificativo, al contrasto esegetico formatosi in ordine alla configurabilità del delitto di concussione rispetto ai casi di c.d. concussione sessuale.
In quella circostanza, infatti, si profilavano davanti al giudice due opzioni ermeneutiche, entrambe possibili, pur non ponendosi problemi di manifesta imprecisione legislativa. L’espressione “altra utilità” con cui l’art. 317 c.p. designa il corrispettivo promesso o pagato dal privato al pubblico funzionario poteva tanto essere interpretata alla luce della nozione che la precede, vale a dire il denaro, e quindi letta in chiave selettiva prettamente economica come sinonimo di ogni altro utile economicamente apprezzabile ottenuto dal concussore; tanto separatamente da tale nozione, come locuzione tesa ad indicare in chiave avversativa ogni altro vantaggio tratto dal soggetto attivo, anche non patrimoniale. Ciò significa che quando la Cassazione ha sostenuto tale seconda alternativa ermeneutica non si sono ragionevolmente posti problemi per la mancata estensione a questo overruling sfavorevole del principio di irretroattività, non essendo assolutamente assimilabile tale situazione a quella della introduzione per mano legislativa di una nuova fattispecie incriminatrice.
In ogni caso, nelle ipotesi di mutamento interpretativo contra reum, si potrà ritenere non punibile l’autore della vicenda storica da cui è originata la decisione giudiziaria all’esito di una valutazione individualizzante ed in concreto circa l’eventuale ignoranza inevitabile della legge penale ai sensi dell’art. 5 c.p. così come riscritto dalla notissima sentenza C. cost. n. 364/1988.
A livello oggettivo, infatti, in entrambe le ipotesi (contrasto diacronico ancora irrisolto e contrasto diacronico risolto sfavorevolmente dalle S.U.), la base legale dell’incriminazione codefinita dall’interpretazione datane dalla giurisprudenza sino a quel momento sarebbe comunque in grado di lasciar prevedere la soluzione interpretativa in malam partem, alimentando un contesto di ‘incertezza’ e non di assoluta ‘imprevedibilità’; l’unica possibilità per il reo sarebbe ragionevolmente quella di motivare sul piano soggettivo la non rimproverabilità della propria condotta, a causa dell’impossibilità di essere effettivamente orientato tramite le norme, restituendo così margini applicativi a una causa di non punibilità davvero poco valorizzata come l’art. 5 c.p.
6.1. (Segue…) Overruling sfavorevole oggettivamente imprevedibile
Cosa ben diversa, invece, sono le altre due tipologie di diritto giurisprudenziale, quelle dell’overruling in malam partem assolutamente imprevedibile e dell’overruling favorevole delle Sezioni unite, che per il loro eccezionale rilievo fanno apparire opportuna e ragionevole l’estensione nei loro confronti dei corollari della irretroattività, retroattività della lex mitior e prevedibilità delle decisioni giudiziarie.
In particolare, come chiarito anche dalle sentenze della Corte EDU Del Rio Prada c. Spagna del 2013 e Contrada c. Italia 2015, il principio di irretroattività deve estendersi al solo ristrettissimo caso di mutamento interpretativo sfavorevole assolutamente e oggettivamente imprevedibile rispetto alla consolidata giurisprudenza di segno opposto (ma pur sempre plausibile in ragione del testo legislativo), secondo il modello già vigente nei paesi di common law[30] del prospective overruling, che consente al giudice di modificare l’interpretazione consolidata soltanto per il futuro e non anche per il passato[31], con la conseguenza che al caso sub iudice si continua ad applicare la pregressa regula iuris, mentre ai casi commessi dopo la nuova sentenza sfavorevole si potrà applicare la nuova regola[32].
Ad avviso di alcuni Autori, tale regola sarebbe già oggi direttamente azionabile anche nel nostro ordinamento, pur in assenza di un’esplicita indicazione normativa, sia per il rischio che il suo mancato ossequio determini nuove condanne da Strasburgo per l’Italia analoghe a quella del caso Contrada per violazione dell’art. 7 CEDU, sia, soprattutto, per un implicito riconoscimento in un obiter dictum del § 7 della sentenza n. 230/2012 e, segnatamente, per il richiamo ivi contenuto, in termini apparentemente adesivi, alla giurisprudenza della Corte EDU a quel momento esistente e relativa alla estensibilità del principio di irretroattività al mutamento giurisprudenziale imprevedibile[33]. Laddove non si condividesse tale soluzione interpretativa convenzionalmente conforme, non ritenendo possibile risemantizzare il lemma legge contenuto nell’art. 2 c.p., l’altra alternativa più semplice sarebbe ancora una volta rappresentata dall’errore inevitabile ex art. 5 c.p.
Questo punto di vista apertamente ribadito dalla Corte EDU a più riprese, ha trovato una recente ed importante conferma nella menzionata sentenza Contrada in cui si è ribadito che il principio di irretroattività vale nei confronti del mutamento giurisprudenziale sfavorevole unicamente quando questo sia assolutamente ed incondizionatamente imprevedibile come nel caso appunto del concorso esterno nel diritto penale italiano[34].
A tale ultimo riguardo deve essere, però, espressa qualche riserva, non perché sia errato il principio di diritto enunciato nella sentenza Contrada, ma perché questo è stato applicato ad una situazione che non coincideva con quella indicata dalla stessa Corte di Strasburgo, riguardando un mero e fisiologico contrasto interpretativo sincronico e non un overruling improvviso ed oggettivamente imprevedibile della giurisprudenza.
Nel caso Contrada, infatti, la condanna inflitta per il reato di concorso esterno di cui agli artt. 110 e 416 bis c.p. era una soluzione giurisprudenziale prevedibile al tempo della commissione dei fatti contestati all’imputato, vale a dire il periodo compreso tra il 1979 e il 1988: non solo in quel frangente storico già esisteva un orientamento che riconosceva il reato di concorso esterno, ma addirittura ne esisteva un altro ancor più rigoroso che riteneva qualificabili quegli stessi fatti come partecipazione in associazione mafiosa ex art. 416 bis c.p.[35].
La stessa ‘base legale’ definita dal tenore letterale delle due norme che in combinato disposto danno vita alla figura delittuosa del c.d. concorso esterno era in grado di lasciar prevedere tale esito giudiziario sfavorevole ancor più facilmente che dopo il 1994 – data in cui per la Corte di Strasburgo con la prima pronuncia delle Sezioni unite viene definito in modo chiaro lo statuto di tipicità di questo delitto –, dal momento che sulla scorta della loro ‘normale’ e ‘naturale’ combinazione il comportamento incriminato dalla fattispecie plurisoggettiva eventuale poteva essere integrato da qualsiasi tipo di condotta di un non affiliato che avesse addotto un mero contributo agevolativo alla condotta di partecipazione in associazione mafiosa.
Con l’intervento delle S.U. 1994 non si è, ex abrupto, confutato un orientamento favorevole consolidato, creando un reato ‘prima inesistente’, bensì si è eliminata solamente ogni incertezza circa l’an del concorso esterno e sono state fornite importanti precisazioni sul quomodo, definendo il suo statuto di tipicità in difformità dal dato letterale degli artt. 110 e 416 bis c.p., ma nella sostanza in maniera più rispettosa dei principi di offensività e di proporzionalità della pena, ammettendo l’equiparazione sanzionatoria del concorrente esterno al partecipe solo in presenza di un contributo ex post rivelatosi causa but for del rafforzamento/mantenimento in vita dell’associazione.
Come è stato osservato, il giudice italiano che non condividesse, oggi, lo specifico principio di diritto enunciato in Contrada dalla Corte EDU – l’inidoneità della base legale rappresentata dal combinato disposto degli artt. 416 bis e 110 c.p. a legittimare una condanna, al metro dell’art. 7 CEDU, per fatti commessi prima della sentenza Demitry del 1994 – “potrebbe argomentare distesamente il proprio dissenso, lavorando sullo stesso terreno del diritto convenzionale; mostrando, se possibile, come la sentenza Contrada sia anomala nello stesso panorama della giurisprudenza di Strasburgo, e meriti pertanto un ripensamento da parte degli stessi giudici europei, magari nel contesto di una pronuncia resa dalla Grande Camera. Nella chiara consapevolezza che tali argomenti saranno poi presi in considerazione e vagliati dalla Corte europea, in risposta al – prevedibilissimo – ricorso che sarà proposto dal condannato contro una simile sentenza”[36].
Da ultimo, un interessante banco di prova per saggiare l’estensione dell’irretroattività al diritto giurisprudenziale è rappresentato dalla attesa decisione delle Sezioni unite relativa al delitto di produzione di materiale pedopornografico di cui all’art. 600 ter c.p.[37].
Dal dispositivo, infatti, si evince che la Corte – ribaltando un granitico orientamento ermeneutico opposto – ha ritenuto configurato tale reato anche nel caso di produzione per uso personale senza pericolo di diffusione. Si dovrà allora vedere se, nelle motivazioni, tale principio di diritto sarà applicato alla vicenda oggetto di giudizio, integrando così un’ipotesi di retroattività occulta, oppure sarà considerato valido solo pro futuro in ragione della sua oggettiva ed assoluta imprevedibilità, comportando, al contrario, la qualificazione del fatto pregresso a titolo del diverso e meno grave delitto di detenzione di materiale pedopornografico di cui all’art. 600 quater c.p.
6.2. (Segue…) Overruling favorevole operato dalle Sezioni unite
D’altro canto, il principio di retroattività della lex mitior deve estendersi al mutamento interpretativo favorevole unicamente quando questo sia intervenuto con una decisione delle Sezioni unite, vale a dire con un provvedimento giudiziario che abbia proprio la funzione nomofilattica di chiarire quale sia la lettura corretta di una fattispecie incriminatrice.
Non ogni sentenza che si discosti da un’altra di segno antagonistico sfavorevole può determinare effetti rilevanti quale la retroazione favorevole; ma solo quella adottata dalla Cassazione nella sua più autorevole composizione, dal momento che esprime una mutata e stabile percezione del disvalore del fatto commesso tale da rendere irragionevole e discriminatoria la prosecuzione anche dell’esecuzione delle pene già inflitte: come possono dirsi rispettati i principi della funzione rieducativa e della proporzionalità della pena di cui agli artt. 27, co. 3, e 3 Cost. nei confronti di quel reo che continui ad espiare la pena inflittagli per un comportamento divenuto successivamente lecito secondo il massimo organo nomofilattico?
Si pensi, a titolo esemplificativo, alla decisione delle Sezioni unite 2017 Paternò relativa al reato di cui all’art. 75, d.lgs. n. 159/2011, Violazione degli obblighi nella sorveglianza speciale, con cui, ribaltando il diverso orientamento del passato, si è proceduto ad una abrogazione giurisprudenziale della fattispecie in questione arrivando a ritenere che il “fatto non sussiste” quando ad essere violate siano le c.d. prescrizioni generaliste del vivere onestamente e rispettare le leggi di cui all’art. 8 dello stesso testo di legge.
Se si condividesse tale decisione (come a noi non pare corretto fare), sarebbe del tutto irragionevole non estenderne gli esiti di favore anche ai casi pregressi già giudicati, come invece avverrebbe ai sensi degli artt. 2, co. 2, c.p. e 673 c.p.p. in caso di abrogazione legislativa o declaratoria della Corte costituzionale. Si giungerebbe, infatti, per tale via, all’assurdo di assistere, nei casi in cui già si è formato il giudicato, all’esecuzione di pene irrogate per un fatto che non è più considerato reato da tutta la giurisprudenza successiva.
7. La riforma dell’art. 618 c.p.p.: verso un’equiparazione delle decisioni favorevoli delle S.U. al mutamento legislativo?
Tuttavia, la possibilità di travolgere addirittura il giudicato in presenza di un revirement favorevole delle Sezioni Unite in attuazione del principio di retroattività della lex mitior sembra preclusa a causa della drastica decisione di sbarramento n. 230/2012 con cui la Corte costituzionale, rigettando la questione di legittimità costituzionale dell’art. 673 c.p.p., ha stigmatizzato le differenze incolmabili intercorrenti tra il diritto penale giurisprudenziale e quello di origine legislativa.
Non di meno, spiragli interessanti per un ripensamento di tale orientamento potrebbero provenire tanto dalla relativizzazione del ‘mito’ dell’intangibilità del giudicato operata da alcune recenti decisioni delle S.U., quanto, e soprattutto, da una delle tante modifiche normative apportate al sistema penale dalla recente riforma Orlando del 2017.
A flettere la rigidità del ragionamento della Corte costituzionale, contribuiscono infatti già le due pronunce delle S.U. 2014, Ercolano e Gatto, che hanno ammesso la revocabilità del giudicato da parte del giudice dell’esecuzione anche in presenza di declaratorie di illegittimità costituzionale di norme diverse da quelle incriminatrici e, quindi, al di fuori dell’unico caso tassativamente elencato dall’art. 673 c.p.p., facendo leva sull’art. 30, co. 4, della legge n. 87 del 1953 istitutiva della Consulta[38].
Ruolo decisivo, però, può essere ascritto alla riforma dell’art. 618 c.p.p., nella parte in cui, nel nuovo comma 1 bis, prevede l’obbligo, per la Sezione della Corte di Cassazione che intenda discostarsi da un principio di diritto enunciato in precedenza dalle Sezioni unite, di rimettere la questione a queste ultime.
Tale innovazione legislativa può segnalare una scelta tanto implicita, quanto forte, a favore della ‘stabilizzazione’ della ‘giurisprudenza-fonte’ e dell’attribuzione alla stessa di quella efficacia erga omnes che nel recente passato le era stata ragionevolmente negata sulla base della precedente disciplina, ritenendo che tutte le volte in cui ci sia stata una decisione delle S.U. questa si presume vincolante per il futuro[39].
Anzi, se si riflette bene, si arriva alla conclusione che la cristallizzazione del principio di diritto enunciato in una decisione del massimo organo nomofilattico assume un valore ‘definitivo’ assimilabile a quello di una modifica normativa, dal momento che un eventuale cambiamento necessiterà di tempo, dovendo provenire dalle stesse S.U. Non solo si dovrà attendere il tempo tecnico inevitabile perché una Sezione semplice si decida ad investirle nuovamente di una medesima questione, ma probabilmente anche un lasso cronologico molto più dilatato: risulta difficile pensare che – nell’eventualità in cui sia adito – il medesimo collegio che ha statuito una regula iuris muti repentinamente orientamento, rivedendo il principio di diritto; è più probabile, invece, che si debbano attendere lunghi anni prima che ciò avvenga, probabilmente almeno quelli necessari ad un rinnovamento dei suoi componenti.
L’efficacia erga omnes di una decisione giudiziaria di questo tipo finirebbe allora con l’essere non così dissimile da quella di un intervento legislativo o della Corte costituzionale. D’altra parte, la recente esperienza ha mostrato cambi di rotta repentini sia sul primo fronte che sul secondo, come nel caso della disciplina della colpa medica riscritta nel giro di appena cinque anni, o di quella dell’oltraggio al pubblico ufficiale oggetto di una duplice riforma in meno di un decennio, o ancora di quella degli stupefacenti oggetto di una sentenza della Consulta e di un immediato intervento ‘ripristinatorio’ del legislatore.
Pur rischiando, allora, di alimentare la sclerotizzazione di orientamenti giurisprudenziali sbagliati a cui si è accennato in precedenza, questa disciplina assicura una fermezza decisamente maggiore al dictum delle S.U. rispetto al passato, facendo venire meno quelle differenze sostanziali che avevano portato la Consulta con la menzionata sentenza n. 230/2012 a ritenere ragionevole l’esclusione dalle ipotesi tassative di revoca del giudicato di cui all’art. 673 c.p.p. di quella della pronuncia giurisprudenziale più favorevole delle S.U., in quanto fenomeno giuridico diverso rispetto all’abrogazione legislativa e alla declaratoria di illegittimità costituzionale[40].
Un primo banco di prova per saggiare la tenuta di questa ipotesi poteva essere rappresentato da una questione di legittimità costituzionale sollevata da un giudice dell’esecuzione in relazione alle possibili richieste di revoca del giudicato pervenutegli per casi simili a quelli affrontati dalle già menzionate Sezioni Unite 2017 Paternò relativamente al delitto di violazione delle prescrizioni inerenti alla misura di prevenzione ex art. 75 d.lgs. n. 159/2011.
Tuttavia, la recente questione di legittimità costituzionale sollevata a pochissimi mesi di distanza dalla Seconda Sezione della Suprema Corte[41], che non ha ritenuto soddisfacente il principio di diritto della sentenza Paternò in quanto abusivamente sostitutivo di una valutazione di compatibilità costituzionale di pertinenza esclusiva della Consulta[42], ha reso impossibile percorrere questa strada.
Affidando la questione in parola al controllo accentrato della Corte costituzionale e alla eventuale declaratoria di illegittimità costituzionale, viene meno il problema della revocabilità del giudicato dal momento che, trovandosi al cospetto di una situazione espressamente contemplata dall’art. 673 c.p.p., sarebbe pacificamente ammessa.
Si dovranno, dunque, attendere nuove situazioni analoghe per verificare la plausibilità di un ripensamento da parte della Consulta della sua posizione circa il mutamento giurisprudenziale favorevole delle Sezioni unite.
8. Conclusioni
Alla luce di quanto detto, si può ritenere che il diritto giurisprudenziale non possa ancora oggi essere considerato una fonte del diritto penale nonostante l’art. 7 CEDU lasci aperta tale possibilità, ostando ad un simile cambiamento la diversa caratura della legalità costituzionale incentrata sul principio di riserva di legge.
La giurisprudenza può essere equiparata al diritto di produzione legislativa unicamente quando, pur in assenza di controllo democratico, essa sia in grado di produrre effetti significativi e imprevedibili, oppure stabili e duraturi analoghi a quelli che, di norma, può produrre solo la legge scritta di provenienza legislativa.
In tali casi limite, non assimilare la giurisprudenza alle fonti di origine parlamentare significherebbe comprimere i diritti fondamentali dei consociati che, nel primo caso, quello di overrulling oggettivamente imprevedibile della Cassazione, si vedrebbero puniti per un fatto che al momento della sua commissione non costituiva reato, e nel secondo caso, quello dell’overruling favorevole delle Sezioni unite che definisce l’irrilevanza penale di un certo comportamento, si vedrebbero puniti per fatti non più considerati penalmente rilevanti.
Diversamente da quanto talvolta si teme, non sono ancora maturi i tempi, né lo saranno mai in uno Stato costituzionale di diritto, per sostituire la riserva di legge, pietra angolare della legalità penale ex art. 25, co. 2, Cost., con un concetto flou di ‘riserva di diritto’ indifferentemente legislativo e giurisprudenziale; anche perché non è quello che vuole l’Europa.
L’Europa, anche sul versante della legalità, si propone solo di innalzare gli standard di tutela interni riconosciuti dalle Costituzioni degli Stati membri, per cui non pretenderà mai di affermare la legittimità della creazione di norme incriminatrici tramite il formante giurisprudenziale in quegli ordinamenti incentrati sulla legalità formale.
Molto più semplicemente, offrirà al singolo la possibilità di veder espandere le sue garanzie sul terreno penale potendo, in casi particolari, beneficiare della copertura dei principi di irretroattività e di retroattività della legge penale più favorevole anche rispetto a decisioni giurisprudenziali, oltre che a statuizioni legislative.
* L’articolo riproduce in maniera ampliata ed integrata con riferimenti bibliografici essenziali la relazione tenuta al seminario italo-spagnolo Principi costituzionali e diritto penale europeo tenutosi l’11 ottobre 2018 presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II.
[1] C. Cupelli, La legalità delegata, Napoli, 2012; C. Grandi, Riserva di legge e legalità europea, Milano, 2010.
[2] M. Vogliotti, voce Legalità, in Enc. dir., Annali IX, Milano, 2013, 373.
[3] R. Guastini, voce Legalità (principio di), in Dig. disc. pubbl., Torino, 1994.
[4] M. Vogliotti, voce Legalità,cit., 378 ss.
[5] F. Viganò, Il principio di prevedibilità della decisione giudiziale, in La crisi della legalità nel “sistema vivente” delle fonti penali, Napoli, 2016, 237.
[6] P. Grossi, Mitologie giuridiche della modernità, Milano, 2007.
[7] P. Grossi, L’ordine giuridico medievale, Roma-Bari, 2006.
[8] P. Grossi, L’ordine giuridico medievale, cit., 50.
[9] Un’acuta lettura critica della sostanziale elusione del principio di legalità in epoca fascista, determinata dall’assetto politico-istituzionale dello Stato che aveva affidato le decisioni in materia di reati e pene non ad un Parlamento democraticamente eletto e rappresentativo di tutte le forze politiche, bensì ad una Camera dei fasci e delle corporazioni composta dai soli esponenti ‘designati’ del partito unico fascista, è condotta da G. Neppi Modona, Principio di legalità e diritto penale nel periodo fascista, in Quad. fior., XXXVI, 2007, 983 ss.
[10] Così P. Costa, Pagina introduttiva. Il principio di legalità: un campo di tensione nella modernità penale, in Quad. fior., XXXVI, 2007, 16.
[11] Evidenzia le eversioni della legalità realizzate in epoca nazista P. Troncone, Controllo penale e teoria del doppio Stato, Napoli, 2006, 91 ss.
[12] F. Palazzo, Il principio di legalità tra Costituzione e suggestioni sovranazionali, in www.legislazionepenale.eu, 29 gennaio 2016, 1 ss.
[13] In argomento, cfr. da ultimo R. Sicurella-M. Costa, Legality, in R. Sicurella-V. Mitsilegas-R. Parizot-A. Lucifora, General principles for a common criminal law frame work in the EU, Milano, 2017, 3 ss.
[14] Così A. Di Martino, Una legalità per due? Riserva di legge, legalità CEDU e giudice-fonte, in Criminalia, 2014, 93, cui si rinvia per altri interessanti considerazioni sul tema.
[15] F. Palazzo, Il principio di legalità, cit., 8.
[16] Cfr. Corte EDU, Grande Camera, Del Rio Prada c. Spagna, 21 ottobre 2013, in cui, pur ribadendosi che l’esecuzione penale non rientra nel concetto di materia penale e quindi nell’orbita garantista del principio di irretroattività di cui all’art. 7 CEDU, si è ammesso, però, che vi debba essere ascritta una modifica peggiorativa dell’orientamento consolidato della giurisprudenza sui termini per accedere ai benefici penitenziari.
[17] A. Di Martino, Una legalità per due?, cit. 117.
[18] R. Bartoli, Legalità europea versus legalità nazionale? Un tentativo di possibile integrazione, in La crisi della legalità. Il “sistema vivente” delle fonti penali, 2016, 293 ss.
[19] F. Palazzo, Il principio di legalità, cit., 8.
[20] Sul punto sia consentito rinviare al nostro Dalla legolatria alla post-legalità: eclissi o rinnovamento di un principio?, in Riv. it. dir. proc. pen., 2018, p. 1 ss. dell’estratto.
[21] In argomento, ex multis, si vedano: G. Fiandaca, Il diritto penale giurisprudenziale tra orientamenti e disorientamenti, Napoli, 2008; F. Giunta, Al capezzale del diritto penale moderno (e nella culla, ancora vuota, del suo erede), in Criminalia, 2015, 383 ss.; G. Insolera, Qualche riflessione e una domanda sulla legalità penale nell’”epoca dei giudici”, in Criminalia, 2012, 285 ss.; V. Manes, Il giudice nel labirinto, Roma, 2012; D. Pulitanò, Crisi della legalità e confronto con la giurisprudenza, in Riv. it. dir. proc. pen., 2015, 29 ss.; F. Palazzo, La legalità fra law in the books e law in action, in Dir. pen. cont., 2016, 4 ss.; M. Donini, Il diritto giurisprudenziale penale. Collisioni vere e apparenti con la legalità e sanzioni dell’illecito interpretativo, in Dir. pen. cont., 2016, 13 ss.; A. Cadoppi, voce Giurisprudenza e diritto penale, in Dig. pen., Agg., Torino, 2016, 407 ss.; Id., Presentazione, in Id., a cura di, Cassazione e legalità penale, Roma, 2017, 19; A. Manna, Aspetti problematici della vincolatività del precedente giurisprudenziale in materia penale in rapporto a talune norme costituzionali, in Studi in onore di Mauro Ronco, Torino, 2017, 184 ss.
[22] F. Viganò, Il principio di prevedibilità, cit., 216.
[23] Sul principio della massimizzazione della tutela v. G. Silvestri, L’effettività e la tutela dei diritti fondamentali nella giustizia costituzionale, Napoli, 2009, 13.
[24] Sulla possibilità di sostituire la riserva di legge si vedano i contributi raccolti in Verso un equivalente funzionale della riserva di legge?, in Criminalia 2011, 77 ss.; nonché T. Padovani, Jus non scriptum e crisi della legalità nel diritto penale, Napoli, 2014, 14 ss. e D. Pulitanò, Crisi della legalità e confronto con la giurisprudenza, in Riv. it. dir. proc. pen., 2015, 29 ss.
[25] A. Di Martino, Una legalità per due?, cit., 119.
[26] Ribadisce l’assoluta inderogabilità della riserva di legge C. Cupelli, Il caso Taricco e il controlimite della riserva di legge in materia penale, in A. Bernardi, a cura di, I controlimiti. Primato delle norme europee e difesa dei principi costituzionali, Milano, 2016, 358.
[27] M. Donini, Disposizione e norma nell'ermeneutica penale contemporanea, in Id., Il diritto giurisprudenziale penale, collisioni vere e apparenti con la legalità e sanzioni dell'illecito interpretativo, in www.penalecontemporaneo.it, 6 giugno 2016, 115, sostiene che “ogni mutamento giurisprudenziale di segno estensivo, che innovi rispetto ad un indirizzo giurisprudenziale well-established, debba comunque soggiacere al divieto di retroattività, ancorché la sottofattispecie sia di segno (meramente) “estensivo” e non “analogico””.
[28] J. Habermas, Faktizität und Geltung (1992), tr. it., Fatti e norme. Contributi ad una teoria discorsiva del diritto e della democrazia, Roma, 2013. Sul punto, seppure in termini differenti, O. Di Giovine, Il ruolo costitutivo della giurisprudenza (con particolare riguardo al precedente europeo), in La crisi della legalità, 162 ss.
[29] F. Palazzo, La sentenza Contrada ed i cortocircuiti della legalità, in Dir. pen. proc., 2015, 1063, a tal proposito osserva che “il più che meritorio intento di “sanzionare” l’incertezza, di garantire l’individuo contro l’incertezza applicativa, si convertirebbe in una paralizzante sclerotizzazione della giurisprudenza. Occorre distinguere l’improvviso e netto revirement giurisprudenziale sfavorevole, rispetto al quale un argine, una garanzia è assolutamente necessaria, dalla situazione di ‘semplice’ incertezza applicativa. Escludere in quest’ultima ipotesi la legalità di una condanna, significherebbe impedire qualunque processo di concretizzazione giurisprudenziale delle disposizioni legislative, in palese contraddizione con l’assunto fondamentale della legalità europea secondo il quale alla produzione del diritto concorrono i due formanti, legislativo e giurisprudenziale”.
[30] Sul punto si rinvia al lavoro ‘avanguardista’ di A. Cadoppi, Il valore del precedente nel diritto penale. Uno studio sulla dimensione in action della legalità, Torino, 1999, 314 ss.; nonché, Id., voce Giurisprudenza e diritto penale, cit., 407 ss.; Id., Presentazione, cit., 19.
[31] In queste situazioni sembra propendere, nelle more di un’esplicita riforma del nostro ordinamento che regolarizzi il prospective overruling per l’impiego dell’art. 5 c.p., F. Viganò, Il principio di prevedibilità, cit., 242.
[32] V. Manes, Commonlaw-isation del diritto penale? Trasformazioni del nullum crimen e sfide prossime future, in Cass. pen., 2017, 969.
[33] R. Bartoli, Legalità europea, cit., 296.
[34] V. Maiello, Consulta e CEDU riconoscono la matrice giurisprudenziale del concorso esterno, in Dir. pen. proc., 2015, 1019; D. Pulitanò, Paradossi della legalità. Fra Strasburgo, ermeneutica e riserva di legge, in www.penalecontemporaneo.it, 13 luglio 2015; M. Donini, Il caso Contrada e la Corte Edu. La responsabilità dello Stato per la carenza di tassatività/tipicità di una legge penale retroattiva a formazione giudiziaria, in Riv. it. dir. proc. pen., 2016, 346; G. Fornasari, Un altro passo nella “riscrittura” della legalità? Appunti sulla sentenza Contrada, in Politica criminale e cultura giuspenalistica, a cura di A. Cavaliere-C. Longobardo-V. Masarone-F. Schiaffo-A. Sessa, Napoli, 2017, 447 ss.
[35] F. Viganò, Strasburgo ha deciso, la causa è finita: la Corte di Cassazione chiude il Caso Contrada, in www.penalecontemporaneo.it, 27 settembre 2017.
[36] F. Viganò, Strasburgo ha deciso, cit.
[37] Cass., Sez. un., 31 maggio 2018, D.M.
[38] Sez. un., 24 ottobre 2013, n. 18821, Ercolano, con nota di F. Viganò, in www.penalecontemporaneo.it, 12 maggio 2014; Sez. un., 14 ottobre 2014, n. 42858, Gatto, con nota di G. Romeo, ivi, 17 ottobre 2014.
[39] Tale modifica sembra accogliere le richieste avanzate da A. Cadoppi, Il valore del precedente, cit., 318 ss.; Id., voce Giurisprudenza e diritto penale, cit., 422, quando segnalava che «non è accettabile che il giudice più periferico possa impunemente dipartirsi da un importante precedente della Corte Suprema di Cassazione, specie se a Sezioni Unite. Né è accettabile che le stesse Sezioni semplici possano superare un precedente delle Sezioni unite». Sul punto, v. M. Donini, Disposizione e norma, cit., 92 ss.; Id., Il diritto penale giurisprudenziale, in www.penalecontemporaneo.it, 6 giugno 2016, 36; G. Fiandaca, Diritto penale giurisprudenziale e ruolo della Cassazione, in Cass. pen., 2005, 1722 ss.
[40] Sulla possibile elusione del nuovo vincolo introdotto dalla riforma Orlando si veda, con specifico riferimento alla materia della partecipazione associativa, I. Giugni, La nozione di partecipazione penalmente rilevante fra perduranti disorientamenti ermeneutici e problemi di legalità penale, in Arch. pen., 2018, 21. Per delle considerazioni critiche su tale riforma si veda anche L. Ludovici, Il giudizio in Cassazione dopo la riforma Orlando, in G. Baccari, C. Bonzano, K. La Regina, E. Mancuso (a cura di), Le recenti riforme in materia penale, Padova, 2017, 444; nonché C. Colucci, Nomofilachia “espressa” e nomofilachia “occulta”: meccanismi di stabilizzazione della giurisprudenza nella recente evoluzione del diritto penale italiano, in Criminalia, 2018, p. 1 ss. del dattiloscritto.
[41] Cass., Sez. II, ord. 11 ottobre 2017 (dep. 26 ottobre 2017), n. 49194.
[42] V. Maiello, La violazione degli obblighi di “vivere onestamente” e “rispettare le leggi” tra abolitio giurisprudenziale e giustizia costituzionale: la vicenda Paternò, in Dir. pen. proc., 2018, 777 ss.; F. Viganò, Ancora sull’indeterminatezza delle prescrizioni inerenti alle misure di prevenzione: la seconda sezione della Cassazione chiama in causa la Corte costituzionale, in www.penalecontemporaneo.it, 31 ottobre 2017.