Il contributo della Corte penale internazionale alla qualificazione del matrimonio forzato come crimine contro l’umanità: la condanna di Dominic Ongwen

Corte penale internazionale, Camera di primo grado IX, 4 febbraio 2021, Procuratore c. Dominic Ongwen

 

La decisione in commento può essere consultata qui.

 

Il 4 febbraio 2021 la Camera di primo grado della Corte penale internazionale (CPI) ha condannato, per crimini di guerra e contro l’umanità, Dominic Ongwen, ex comandante del gruppo armato dei ribelli ugandesi, la Lord’s Resistance Army (LRA), in cui era stato arruolato quando ancora bambino. Dei 70 capi di accusa pendenti sull’imputato, che comprendono tra l’altro le accuse di omicidio, tortura, stupro, arruolamento di bambini-soldato, gravidanza forzata, matrimonio forzato, la Corte, all’unanimità, ne ha confermati ben 61.

Si tratta non solo della prima condanna pronunciata dalla CPI nell’ambito dell’indagine, avviata 17 anni fa, avente ad oggetto i crimini commessi ai danni della popolazione civile ugandese, ma anche del primo espresso riconoscimento, da parte di un tribunale penale pienamente internazionale, della qualificazione del matrimonio forzato quale crimine contro l’umanità.

Va infatti a questo riguardo ricordato che la questione se la fattispecie potesse essere considerata come crimine a se stante, piuttosto che essere assorbita nell’ambito di altri reati come condotta idonea alla loro realizzazione, è stata oggetto di un significativo dibattito giurisprudenziale, che ha principalmente interessato la Special Court for Sierra Leone (SCSL) e le Extraordinary Chambers in the Courts of Cambodia (ECCC), entrambe facenti parte del novero dei c.d. tribunali internazionalizzati, ossia composti da giudici sia interni che internazionali e localizzati nel territorio dello Stato su cui si sono consumati i crimini oggetto della loro giurisdizione. Oltre ad avere reso una importantissima testimonianza storica delle atrocità commesse rispettivamente durante il conflitto sierraleonese e nel periodo della Kampuchea Democratica, tali corti hanno anche contribuito, con la loro giurisprudenza, allo sviluppo del diritto internazionale penale rispetto ai crimini che hanno caratterizzato le vicende di cui si sono occupate. Con riguardo in particolare al matrimonio forzato, esse, seppure seguendo percorsi argomentativi parzialmente diversi, hanno per prime avanzato la tesi secondo cui fattispecie è ascrivibile alla categoria dei crimini contro l’umanità, rientrando negli “other inuman acts”.

Tale conclusione è stata confermata dalla CPI, che ha infatti riconosciuto, ex art. 25 (3)(a) dello Statuto di Roma, la responsabilità penale individuale di Dominic Ongwen per il crimine di matrimonio forzato, ai sensi dell’art. 7(1)(k); la norma appunto prevede la sottocategoria residuale di crimini contro l’umanità consistenti in condotte che comportano un oltraggio alla dignità umana equiparabile quello prodotto dalle altre fattispecie espressamente disciplinate (paragrafo 50 della sentenza). Nel pronunciare tale condanna, la Corte ha anche meglio definito gli elementi del reato, argomentando come segue: «The central element, and underlying act of forced marriage is the imposition of this status on the victim, i.e., the imposition, regardless of the will of the victim, of duties that are associated with marriage – including in terms of exclusivity of the (forced) conjugal union imposed on the victim – as well as the consequent social stigma. …Accordingly, the harm suffered from forced marriage can consist of being ostracised from the community, mental trauma, the serious attack on the victim’s dignity, and the deprivation of the victim’s fundamental rights to choose his or her spouse».

Ad avviso della Corte, quindi, il matrimonio forzato rappresenta di per sé un comportamento idoneo a collocarsi tra gli “other inhumane acts”, senza che, come invece ritenuto dalla giurisprudenza precedente (cfr. ECCC, Case 002/02), sia ulteriormente necessario dimostrare che la condotta ha raggiunto un livello di gravità tale da potere essere caratterizzata come crimine contro l’umanità. Secondo i giudici, l’offesa alla dignità della vittima si realizza nel momento in cui questa è costretta contro la sua volontà a contrarre matrimonio e ad assumere tutti i doveri che questo comporta; tale condotta è infatti suscettibile di causare gravi sofferenze fisiche e psicologiche, oltre a rappresentare una grave violazione del diritto umano a decidere liberamente se e con chi sposarsi.

Quanto al requisito della costrizione, la CPI precisa che questo è soddisfatto non solo quando la vittima è sottoposta all’uso o alla minaccia della forza fisica, come invece sembrerebbe emergere dalla prassi della SCSL e delle ECCC, ma anche nel caso in cui essa subisca violenza psicologica, eventualmente determinata dal trovarsi esposta, in caso di rifiuto, alla stigmatizzazione sociale.

Conclusione questa, peraltro, in linea con quanto previsto dalla recente Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica, siglata a Istanbul nel 2011, la quale per la prima volta sancisce l’obbligo per gli Stati di criminalizzare il matrimonio forzato, fattispecie che ricorre quando un individuo, a prescindere dall’età, sia costretto a sposarsi contro il proprio volere (art. 37). Ove perpetrata nel contesto di un attacco diffuso e sistematico contro una popolazione civile, secondo i più recenti sviluppi della giurisprudenza internazionale, di cui questa segnalazione intende dare conto, la medesima condotta è oltretutto ascrivibile al crimine contro l’umanità consistente nella commissione di “other inhumane acts”.