In tema di aiuto al suicidio la Corte costituzionale italiana intende favorire l’abbrivio di un dibattito parlamentare

Pubblichiamo un primo commento alla ordinanza n. 207 del 2018, con la quale la Corte costituzionale italiana - per consentire in primo luogo al Parlamento di intervenire con un’appropriata disciplina - ha rinviato la trattazione delle questioni di legittimità costituzionale sollevate sull’articolo 580 c.p. (che punisce l'aiuto al suicidio). Il contributo è altresì pubblicato sul portale www.diritticomparati.it

La Corte costituzionale, entrando nel merito della questione sollevata dalla Corte d’Assise di Milano nell’ambito della nota vicenda sul suicidio assistito di Fabiano Antoniani, con l’ordinanza n. 207 del 2018 (si scrive ordinanza, ma si legge sentenza), ha rinviato la trattazione delle questioni di legittimità costituzionale sollevate sull’articolo 580 del codice penale.

L’ordinanza segnalata è rilevante sia per i profili processuali che per quelli di merito. Pur intendendo soffermarci in particolare su questi ultimi, non si può non rilevare che la Corte con l’ordinanza in commento ha inventato una nuova tecnica decisoria (A. Ruggeri, Venuto alla luce alla Consulta l’ircocervo costituzionale (a margine della ordinanza n. 207 del 2018 sul caso Cappato), in Consulta Online, III-2018, 573), nel senso che, pur palesando l’incostituzionalità nella normativa sottoposta al suo scrutinio, piuttosto che dichiararne l’incostituzionalità ex art. 136 Cost., ha rinviato la trattazione della causa fissando la data dell’udienza al 24 settembre del 2019, previa concessione al Parlamento (a cui è inviata una motivata ‘sollecitazione’) di un periodo di tempo per l’esercizio della sua discrezionalità.

Nel merito, la Corte rileva nell’ordinamento un vuoto di tutela di valori derivante dal divieto assoluto di aiuto al suicidio (art. 580 c.p.) che finisce per limitare «la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost.» (p.to 9 cons. in dir.).

Per la Corte la disciplina codicistica in questione è irragionevole e lo è anche alla luce della legislazione sul consenso informato e sulle disposizioni anticipate di trattamento (l. n. 219 del 2017) che, positivizzando solide acquisizioni giurisprudenziali, riconoscono (ex art. 32 Cost.) ad ogni persona capace di agire il diritto di rifiutare o interrompere qualsiasi trattamento sanitario, anche quello salva vita. Vi sono, però, delle situazioni di malattia grave in cui non si dipende da alcun trattamento o nelle quali l’interruzione del trattamento sanitario (con conseguente somministrazione della sedazione palliativa) non determina comunque la fine a breve termine della vita del paziente. In queste situazioni, non disciplinate dalla legge sul consenso informato e sulle DAT, il divieto per il medico che ne sia richiesto di porre in essere trattamenti diretti a determinare la morte del paziente, costringe quest’ultimo a subire «un processo più lento, in ipotesi meno corrispondente alla propria visione della dignità nel morire» (p.to 9 cons. dir.). Se la legislazione sulle DAT obbliga (tranne che in alcuni limitatissimi casi) al rispetto della decisione del malato di porre fine alla propria esistenza tramite l’interruzione dei trattamenti sanitari – la qual cosa non è affatto esclusa dal rilievo costituzionale del valore della vita – per la Corte non vi è ragione per la quale «il medesimo valore debba tradursi in un ostacolo assoluto, penalmente presidiato, all’accoglimento della richiesta del malato di un aiuto che valga a sottrarlo al decorso più lento – apprezzato come contrario alla propria idea di morte dignitosa – conseguente all’anzidetta interruzione dei presidi di sostegno vitale».

Quindi, la normativa italiana dell’aiuto al suicidio ha gravi criticità che la rendono irragionevole. La problematica maggiore risiede nel fatto che la norma penale non prende minimamente in considerazione l’autodeterminazione della persona, tutelando l’art. 580 cod. pen. solo ed esclusivamente il bene vita, senza valutare la richiesta di aiuto al suicidio proveniente da persona affetta da malattia grave ed incurabile. Fermarsi a questa affermazione (incostituzionalità per mancata tutela del principio di autodeterminazione), però, significherebbe creare un’intollerabile torsione a favore dell’autonomia del soggetto, svilendo in modo eccessivo e, quindi, irragionevole (perché assoluto), il principio della protezione della vita la cui tutela è compito dello Stato assicurare (l’art. 580 è «funzionale alla protezione di interessi meritevoli di tutela da parte dell’ordinamento», p.to 6 cons. dir.); è necessario, pertanto, bilanciare. La tutela della vita – ed in particolare la protezione dei soggetti più deboli e vulnerabili – si assicura proprio garantendo che ogni persona possa sì esprimersi attraverso la propria autodeterminazione, ma sempre nel rispetto di determinati limiti anche quando non si interferisca in sfere giuridiche altrui.

L’art. 580 deve, quindi, continuare a garantire la tutela del bene vita, ma anche riconoscere uno spazio di liceità, riconosciuta a chi è affetto da una patologia irreversibile e fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, così come la libertà di porre fine alla propria esistenza tramite la richiesta di un aiuto che valga a sottrarlo al decorso lento della malattia.

Appare quindi prima facie come l’intervento del Legislatore sia imprescindibile per un primo bilanciamento, ad esempio per assicurare una efficacia erga omnes della normativa (che non sarebbe stata assicurata dalla Corte se si fosse determinata per una interpretativa di rigetto), e per prevedere i casi, i presupposti e le modalità di accertamento della validità della richiesta di aiuto al suicidio. I presupposti fondanti l’ammissibilità della domanda dovrebbero prevedere una richiesta cosciente e libera da parte di un soggetto malato di porre fine alla propria vita; l’espressione del principio personalista e della libera autodeterminazione del soggetto richiedente; il raggiungimento di uno stato di malattia talmente grave da essere definito come irreversibile e da comportare che il vivere non sia più accettabile dalla persona che richiede che la propria vita termini in modo (per lei) dignitoso. In una normativa che legalizzasse l’aiuto al suicidio, il Legislatore (per continuare con esempi sulle questioni da dibattere, molti dei quali richiamati nella stessa ordinanza) dovrebbe altresì accertare che la capacità di intendere e di volere sia piena; che sia previsto un adeguato lasso di tempo tra la richiesta e il compimento dell’atto; che si valuti la fondatezza scientifica della valutazione medica; che si preveda la possibilità di obiezione da parte del medico (si noti che, a differenza di quanto previsto oggi, l’intera normativa deve rilevare nella relazione medico-paziente).

È quindi di tutta evidenza che una decisione di accoglimento secco, limitandosi ad espungere la norma di cui all’art. 580, lascerebbe «del tutto priva di disciplina legale la prestazione di aiuto materiale ai pazienti in tali condizioni [persone vulnerabili], in un ambito ad altissima sensibilità etico-sociale e rispetto al quale vanno con fermezza preclusi tutti i possibili abusi» (p.to 10 cons. dir.).

Quindi, aprire alle pratiche eutanasiche significa non avallare una richiesta di morte tout court – come inopinatamente molto spesso si afferma –, ma dar seguito ad una richiesta di morte dignitosa, che sia limitata e rigidamente circoscritta da presupposti fissati legislativamente. Così come avviene nel caso di richiesta di ricorso all’aborto, è solo la previsione di presupposti che determina uno spazio di liceità.

A ben vedere, la decisione del giudice delle leggi di addivenire ad un rinvio di nuova trattazione rimanda al rapporto – che vi è e che deve esservi – tra Corte e Legislatore e che, in alcune esperienze di giustizia costituzionale, è stato affrontato con la possibilità di decidere circa la modulazione nel tempo degli effetti delle pronunce (di accoglimento) della Corte. Il diritto comparato, quindi, può costituire un interessante angolo di visuale sulla capacità delle Corti Supreme di incidere sulla disciplina dell’aiuto al suicidio (come materia penale particolarmente delicata). Ci riferiamo alla recente decisione della Corte Suprema del Canada (caso Carter v. Canada, del 6 febbraio 2015), che ha sì dichiarato l’incostituzionalità del divieto penale (art. 241.b c.p.) che proibisce in modo assoluto, e quindi, a parere del Collegio, in modo ingiustificato, l’aiuto al suicidio (come pure l’eutanasia attiva), ma, modulando nel tempo gli effetti della pronuncia, ha sospeso gli effetti della sua declaratoria di incostituzionalità per il periodo di un anno. Tale periodo è quello riconosciuto al Parlamento per produrre una legislazione confacente alla motivazione del giudice costituzionale sulla definizione degli stretti limiti all’accesso alle pratiche eutanasiche (per la tutela della categoria dei soggetti vulnerabili) nonché sul diritto dei medici ad esercitare l’obiezione di coscienza e, quindi, sulla determinazione del contenuto del già riconosciuto diritto fondamentale a morire in modo dignitoso. Il Legislatore, poi, pur richiedendo qualche mese in più rispetto al termine concesso, ha normato in materia.

Un’altra Corte è recentemente giunta a medesima conclusione, seppur senza intervenire sul rinvio dei tempi dell’accoglimento, ma anche in questo caso il ‘tempo’ ha giocato un ruolo importante. Ci si riferisce alla Corte Constitucional de Colombia che in una prima decisione (sentencia C-239 de 1997) – benché abbia escluso l’antigiuridicità della condotta del medico che, sotto certe condizioni, aiuta a morire il paziente consenziente – si è limitata a pronunciare un dispositivo contenente una interpretativa di rigetto, non legalizzando, dunque, l’aiuto a morire. Nel dispositivo della decisione era comunque contenuto un monito al Legislatore affinché provvedesse a statuire la disciplina sul diritto alla morte dignitosa: «exhortar al Congreso para que en el tiempo más breve posible, y conforme a los principios constitucionales y a elementales consideraciones de humanidad, regule el tema de la muerte digna». Il tempo da allora trascorso – che secondo l’auspicio appena riferito avrebbe dovuto essere il più breve possibile – non è stato impiegato dal Parlamento colombiano per produrre la legislazione sul diritto a morire, tanto che, nel frattempo, è intervenuta un’altra decisione (la sentencia T-970 de 2014), che, se da una parte ha rinnovato il monito al Parlamento, dall’altra ha ‘ordinato’ al Ministerio de Salud di emanare nel termine perentorio di 30 giorni una direttiva, disponendo tutto il necessario affinché negli ospedali sia pubblici che privati fosse costituito un Comité interdisciplinario per prendere in considerazione le istanze eutanasiche. Con la Resolución n. 1216 del 20 aprile 2015, vale a dire a distanza di diciotto anni dalla prima decisione della Corte Constitucional in materia, il Ministero della Salute colombiano ha approvato le linee guida che definiscono i termini del ‘riconosciuto’ derecho a morir con dignidad.

Ecco, la Corte costituzionale italiana – pur non pronunciando, formalmente, alcuna decisione di fondatezza modulandone gli effetti pro futuro (cosa che le sarebbe preclusa) – ha perseguito lo stesso risultato a cui è giunta la Corte canadese, senza incorrere nel rischio che un suo eventuale monito cadesse nel vuoto, stante anche la ‘lentezza’ con cui il nostro Legislatore procede quando decide di normare su questioni definite ‘eticamente sensibili’. Se la Corte costituzionale avesse deciso per il monito (cosa che avrebbe potuto fare) e questo fosse rimasto senza riscontro, la tecnica della c.d. ‘doppia pronuncia’ (inammissibilità prima, accoglimento poi) le avrebbe permesso di accogliere una questione simile se nel futuro fosse stata nuovamente sollevata, ma, a giudizio dell’intero Collegio, la conseguenza di lasciare nell’ordinamento una normativa non conforme a Costituzione per un tempo non precisato non poteva «considerarsi consentito nel caso in esame, per le sue peculiari caratteristiche e per la rilevanza dei valori da esso coinvolti» (p.to 11 cons. dir.).

La Corte ha quindi sottolineato (si v. sempre il p.to 11 cons. dir.) l’importanza che su questi temi sia il Parlamento a dibattere, almeno per un primo bilanciamento (viene richiamato il monito, rimasto inascoltato, presente in Corte Suprema del Regno Unito, sentenza 25 giugno 2014, Nicklinson e altri, [2014] UKSC 38). Questo perché solo una discussione parlamentare, che è pubblica, permette che su tali temi si produca un dibattito politico serio, supportato scientificamente e dirimente per le tematiche definite eticamente sensibili; solo una decisione politica dopo essere stata assunta potrà essere, poi, valutata come compatibile o meno al testo costituzionale. Questo è lo «spirito» della presente decisione, che si muove in un contesto espressamente definito «collaborativo» e «dialogico» fra Corte e Parlamento (p.to 11 cons. dir.).